di
Federico Fubini

L’America dei dazi subirà una fase di stagflazione, ma resterà efficiente e potente sul piano tecnologico e finanziario

Questo articolo in origine è stato pubblicato sulla newsletter di Federico Fubini «Whatever it takes», clicca qui per iscriverti.

Buona settimana di Ferragosto. Di solito in questo periodo mi fermo e con me questa newsletter. Posso anche confermare la sindrome da concessioni balneari vuote dell’estate, accompagnata da padri di famiglia come il sottoscritto che ingannano la mattinata sul bagnasciuga lamentandosi dei prezzi mentre i piccoli giocano in acqua. Ma quest’anno proseguo la newsletter (per ora) perché la realtà esterna ha fatto irruzione nei riti estivi: la rivoluzione della Trumponomics sta iniziando a dispiegare i suoi effetti con il ritorno dei dazi della prima economia del mondo ai livelli più alti dal 1933. Erano attorno al 2% sette mesi fa, all’inizio della seconda presidenza di Donald Trump. Oggi sono al 18,6% effettivo (vedi grafico sotto), misurato cioè sui volumi dei vari prodotti dai diversi Paesi. 



















































Il protezionismo senza precedenti di Trump

Così, decisa in un colpo solo, è la maggiore virata protezionista dell’America dal 1861. Allora il «Morrill tariff» puntava ad aumentare le entrate per finanziare la guerra civile. Giusto per dare l’idea dell’enormità di quanto sta accadendo: nel 1861 Charles Dickens, John Stuart Mill e Karl Marx scrissero ampiamente di quella svolta. Per certi aspetti questa di oggi però è persino più drastica – come nota Paul Krugman – perché oggi il peso delle importazioni sull’economia americana è oltre quattro volte superiore al 1933; e il peso dell’economia americana nel mondo è probabilmente oltre quattro volte quello del 1861. Insomma, siamo di fronte a un evento senza precedenti.

In proposito vorrei sviluppare tre semplici punti, in parte già discussi sul «Corriere»:

I dazi di Trump stanno stendendo sugli Stati Uniti l’ombra della stagflazione, almeno nel breve e medio periodo: più inflazione, meno crescita.

I dazi sono una manovra socialmente regressiva: colpiranno di più gli americani che hanno meno, meno quelli che hanno di più.

Il Paese non entrerà in recessione, tuttavia, perché la rivoluzione parallela dell’intelligenza artificiale (AI) sta formando una seconda America, di una potenza finanziaria anch’essa senza precedenti (nella foto sopra, Trump con il fondatore e amministratore delegato di Nvidia Jen-Hsun Wang). Il problema è che, appunto, rispetto alla vita dell’americano medio quello dell’AI rischia di restare proprio questo: un mondo a sé. E in questo la campana dell’America, da almeno un secolo, suona anche per noi. Vediamo.

Perché i prezzi corrono

Non è difficile immaginare perché negli Stati Uniti l’inflazione nel breve e medio periodo possa accelerare. Era scesa da gennaio ad aprile (al 2,3%), primo mese dei dazi, ma da allora è risalita ogni mese fino al 2,7% di giugno. Domani (martedì 12 agosto) vedremo se c’è stato un aumento anche in luglio. Di certo prima che i dazi scattassero in aprile molti importatori avevano riempito i magazzini di vini italiani, prodotti chimici tedeschi, robot giapponesi, moda francese, abbigliamento bengalese, scarpe cambogiane. Ora quelle scorte accumulate in regime di dazi bassi si stanno esaurendo e i prossimi prodotti esteri andranno sul mercato americano portandosi addosso i nuovi costi doganali. Alti come sono, è impossibile che siano tutti assorbiti a lungo dai produttori o dai rivenditori riducendo i margini di guadagno. L’inflazione è solo questione di tempo (sempre che Trump non cambi strada, ovvio).

Le filiere produttive

Esistono però altre due ragioni non altrettanto discusse per le quali i dazi la alimenteranno. Non c’è solo l’effetto diretto dell’import, che in fondo vale giusto il 14% dell’economia americana; non sono solo i giocattoli made in Vietnam sugli scaffali di Walmart, che ora si porteranno nei prezzi i segni di un ulteriore 20% pagato alla frontiera.

Un’altra causa di inflazione è illustrata nel grafico qua sotto, dello Yale Budget Lab. Molti fra i beni più duramente colpiti dalle tasse all’ingresso, dunque destinati a rincarare di più, non finiscono nelle vetrine dei centri commerciali; entrano nelle filiere produttive americane: metalli, macchinari elettrici, minerali, plastiche, prodotti elettronici e ottici. Queste sono tasse sui produttori americani, non direttamente sui consumatori. Le fabbriche degli Stati Uniti subiranno rincari sulle loro forniture, che poi inevitabilmente finiranno per scaricare a valle. Diventeranno più cari anche i prodotti fatti in America con apporti dal resto del mondo. Cioè, praticamente tutti.

Dove sono i colletti blu?

C’è poi una spiegazione del carovita in arrivo, mi scuso, più indecente: gli arresti e le deportazioni forzate dei lavoratori stranieri, che hanno prodotto un crollo netto della loro presenza negli Stati Uniti di 1,7 milioni di persone da marzo a luglio (secondo la Federal Reserve di St. Louis). È il calo più brusco dai tempi del Covid e il secondo maggiore da quando esistono statistiche in materia. Non si era visto niente del genere neanche durante la crisi immobiliare legata alla Grande recessione del 2008, quando l’intero settore delle costruzioni era paralizzato. Ma con l’America vicina alla piena occupazione e molti americani indisponibili (o inadatti) a fare i blue collar, chi porterà avanti i cantieri? Chi garantirà i raccolti? Anche questa scarsità minaccia di innescare rincari diffusi.

L’economia Usa rallenta

Nel frattempo l’economia rallenta. La crescita nella prima metà dell’anno è stata dell’1,2% in proiezione annuale: decente se si trattasse dell’Italia, ma per gli Stati Uniti meno della metà del ritmo del 2024 e molto sotto le medie recenti. Le continue accelerazioni e sterzate sui dazi hanno portato a un calo di oltre 200 miliardi di dollari degli investimenti fra aprile e giugno rispetto ai tre mesi prima – malgrado l’esplosione nello sviluppo di colossali data center per l’AI – con in più un effetto impalpabile ma reale: le politiche di Trump stanno colpendo in particolare i più poveri, gli stessi in nome dei quali si era candidato nel 2016 e nel 2024.

I dazi colpiscono i poveri

Chi se lo sarebbe mai immaginato? Non mi dilungo sul Big Beautiful Budget Bill, la manovra di bilancio che taglia l’assistenza sanitaria e i food stamps (i voucher per il cibo) a 23 milioni di famiglie per finanziare in parte i tagli alle tasse riservati per lo più ai ricchi. Ma lo Yale Budget Lab ha elaborato il grafico qui sotto: i dazi riducono molto di più il potere d’acquisto delle famiglie più povere, perché incidono di più su beni che contano maggiormente sul loro paniere abituale di acquisti (per esempio, i prelievi medi al 39% sui più semplici prodotti d’abbigliamento).

Il miracolo di Wall Street

Insomma: più inflazione, meno crescita, più diseguaglianza. L’economia rallenta, ma la Federal Reserve potrebbe decidere di non tagliare i tassi o di tagliarli meno di quanto sarebbe necessario, perché la dinamica dei prezzi non è sotto controllo. Se tutto ciò fosse vero – o fosse tutta la verità – allora Wall Street dovrebbe crollare. Il mercato vedrebbe un futuro di fatturati deboli ma costi di finanziamento alti per le aziende, i consumatori, gli investitori. Dovremmo assistere a un replay del crash di aprile.

Invece lo S&P500, il principale indice azionario, è ai massimi di sempre. Dal punto più basso seguito ai primi annunci sui dazi è salito di oltre il 28%, eppure i prelievi medi attuali sono appena più bassi di quelli che avevano innescato i crolli dopo il “Liberation Day” (22,4% allora, 18,6% oggi). Com’è possibile?

È possibile, naturalmente, grazie all’altra rivoluzione americana in corso. Quella dell’AI. La sola Nvidia, leader per i semiconduttori usati negli enormi data center necessari ai grandi sistemi di intelligenza artificiale, vale da sola ormai quasi quanto gli interi indici azionari di Parigi e di Francoforte insieme. Sette grandi società protagoniste nell’AI (Nvidia, Microsoft, Apple, Alphabet-Google, Amazon, Meta e Broadcom) ormai valgono da sole oltre il 37% del principale listino di Wall Street. Appena una settimana fa era il 35%. Valgono in sette circa un quinto della capitalizzazione di borsa del mondo intero. Non si era mai vista una tale concentrazione di valore azionario in così pochi titoli, tutti concentrati su così alti livelli di conoscenza, ricerca, proprietà intellettuale. Tra l’altro queste valutazioni sono sì elevate in proporzione agli utili attesi, ma molto meno rispetto all’esperienza di bolle speculative più o meno recenti di Wall Street. Non è detto che siamo di fronte a una pura febbre irrazionale del mercato. Enormi investimenti in data center stanno già seguendo, per centinaia di miliardi.

Una dimensione diversa 

La sostanza di una trasformazione tecnologica e produttiva c’è, ma in che modo si calerà su una società americana già nevrotizzata dai dazi? Oggi i campioni dell’AI viaggiano semplicemente in una dimensione diversa. Esistono due Americhe. Nvidia per esempio ha appena 36 mila dipendenti – con un compenso mediano di 245 mila dollari per addetto – ma ad ogni dipendente corrispondono 122 milioni di dollari di valore azionario, cioè di attese di profitti futuri. Invece un campione della vecchia economia materiale come Boeing – aeronautica civile, aerospazio, difesa – ha 170 mila dipendenti, con un compenso mediano pari alla metà di quello di Nvidia e un valore azionario di un milione per addetto: di 122 volte più piccolo. Anche la paga media per chi lavora a General Motors o Caterpillar – grandi icone dell’industria americana – è la metà o un terzo di chi lavora a Meta, Alphabet, Apple o Microsoft e il valore azionario per addetto dei leader dell’industria è una frazione minima rispetto a quello dei leader dell’AI. Queste sono le due Americhe. Ormai non è raro che ingegneri dell’AI ricevano offerte di lavoro con pacchetti di compensi da cinquanta, cento o anche oltre duecento milioni di dollari.

Ma pochi rischiano di poter condividere i frutti di questa economia che viaggia su un’altra dimensione. Secondo il Bureau of Labor Statistics ci sono in America 8,3 milioni di occupati nell’edilizia, 12,7 milioni nella manifattura, 6,7 nella logistica. Ma solo 376 mila nella produzione di semiconduttori e elettronica e meno di tre milioni in tutti i settori digitali insieme.

L’America dei dazi subirà una fase di stagflazione firmata Trump, ma resterà efficiente e potente sul piano tecnologico e finanziario. Continuerà a correre. Intanto la polarizzazione sociale vista finora non sembrerà ancora nulla. E quella politica seguirà.

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11 agosto 2025