voto
8.5

  • Band:
    ALICE IN CHAINS
  • Durata: 01:04:52
  • Disponibile dal: 30/10/1995
  • Etichetta:
  • Columbia

La discografia degli Alice In Chains, almeno nella sua prima fase d’esistenza, è stata un susseguirsi di album granitici in cui una conoscenza maniacale dell’hard rock si lasciava contaminare da una più innovativa frequentazione heavy metal e doom, con EP acustici capaci di esaltare sia il songwriting di Jerry Cantrell che la voce calda ed emozionante di Layne Staley.
Dopo il successo del mini-album “Jar Of Flies”, è proprio il cantante a concedersi un progetto parallelo, fondando, con Mike McCready (Pearl Jam) e Barret Martin (Screaming Trees), i Mad Season. Le canzoni dell’unico album ufficiale, “Above” si muovono in perfetto equilibrio tra hard blues (“I Don’t Know Anything”, “Lifeless Dead”) e cantautorato (“River Of Deceit”, “Wake Up”), ma è il contesto in cui nasce la nuova band – una clinica per la disintossicazione da alcool e droghe – a preoccupare il nucleo di affetti che circonda questi artisti.
La speranza che Layne trovi nella musica la forza necessaria per sottrarsi alle proprie ossessioni è flebile, e così, al ritorno insieme, gli Alice In Chains si trovano ad essere un cane a tre zampe che zoppica tra tour annullati e la tentazione per Cantrell di proseguire da solo, o almeno con il fidato Sean Kinney, lungo un sentiero meno accidentato.

Queste sono le premesse da cui volevamo partire per raccontare “Alice In Chains”, terzo album ufficiale del gruppo, pubblicato dalla Columbia Records nel 1995, quando della cosiddetta scena di Seattle già non si parlava più, tra ultimatum lanciati dai responsabili della casa discografica perché i musicisti completino il lavoro e gossip continui sull’imminente morte di Staley. Queste premesse sono fondamentali, a nostro avviso, per farvi comprendere il miracolo di un disco nato da un profondo disagio mai nascosto e che finì per debuttare al primo posto della US Billboard 200, portando il quartetto a supportare i Kiss durante parte dell’Alive/Worldwide Tour.
L’album è prima di tutto il frutto di un sacrificio, quello di Jerry Cantrell, che mette da parte la propria ambizione di pubblicare un album solista (ci riuscirà solo tre anni dopo, con “Boggy Debot”) e condivide con gli altri i demo di alcuni dei pezzi a cui sta lavorando, con l’intuizione che, nonostante la scrittura rimanga saldamente in mano al chitarrista, solo Layne Staley  alla seconda voce può donare la giusta melodrammaticità all’iniziale “Grind”, una versione sedata di “Them Bones” che avanza barcollante e distorta per quasi otto minuti.
È un incipit che annichilisce, una dichiarazione di intenti decisa a non lasciare dubbi: in questo terzo disco, come nelle immagini inquietanti del booklet, non c’è spazio per alcuno spiraglio di luce, anzi;  la band, nel tentativo di fondere l’irruenza dei dischi precedenti con le sperimentazioni roots di “Sap” e “Jar Of Flies”, partorisce un suono che dalla tradizione americana attinge soprattutto un carattere gotico, tra slides e acustiche vicine all’atmosfera delle murder ballads di inizio Novecento. Non c’è una hit nel lavoro o, meglio, anche quando pare ci possa essere, negli arrangiamenti il gruppo si tiene lontano da un possibile successo radiofonico, come in “Brush Away”, dove il grunge si arrende ad un ritmo desolato e opprimente, oppure in “Sludge Factory”, uno dei capolavori dell’album, attraversata da uno straniante solo blues e nel cui testo possiamo ammirare Staley al meglio delle sue capacità di attore drammatico.

I leader si dividono i ruoli, avanzando e arretrando dalla prima fila, oppure condividendo gli onori: in “Heaven Beside You” è Cantrell a conquistarsi il palcoscenico con uno dei brani più orecchiabili della raccolta, un suono pastoso memore delle atmosfere di “No Excuses” (ma perturbato da un ritornello quasi noise) per mettersi a nudo tra amori e amicizie in dissolvenza (“So there’s problem in your life, that’s fucked up, I’m not blind”); “Head Creeps” è una disperata romanza industrial composta interamente da Staley che si può riassumere perfettamente nel “One more time, just one more time” implorato in apertura, mentre “Again” è ciò che più si avvicina, almeno per produzione, alle potenzialità che la band aveva mostrato in “Dirt”, ed il cui ritmo ossessivo sarà occasione per numerosi e spesso opinabili remix di cui potete trovare comodamente traccia su Spotify.
A metà percorso ci si concede una breve pausa con la  ballata acida “Shame in You” (a torto un brano scarsamente considerato nel repertorio AIC), per poi proporre un terzetto di brani difficilmente addomesticabili come “God Am”, nobilitata dal ritornello innodico, “So Close”, dove emerge il ruolo fondamentale di Sean Kinney dietro le pelli, capace di infondere a tutta la scaletta un suono secco, al limite del primitivo, e “Nothing’ Song”, cantilenante preludio al secondo picco emozionale del disco, ovvero gli arpeggi sospesi di “Frogs” ed il disarmante recitativo in coda “At 7 am on a Tuesday, usual August, next week I’ll be 28, I’m still young, it’ll be me”.
In chiusura, ecco “Over Now”, che sta a questo lavoro come “All Apologies” stava a “In Utero” dei Nirvana: un epilogo fintamente rincuorante, un giro di accordi gioioso che si scioglie nel refrain attraverso mille rivoli psichedelici, fino a scomparire, ed è anche quello che accade agli Alice In Chains, non prima di aver pubblicato “Unplugged”,  messa da requiem in chiave acustica dove sono proprio i brani presi dall’ultimo album a brillare (da brividi la versione blues di “Sludge Factory”).
Jerry Cantrell si dedicherà ad una carriera solista che lo consacrerà come uno dei migliori autori della sua generazione, mentre Staley, dopo la comparsata per la colonna sonora dell’horror “The Faculty” con una cover di “Another Brick In The Wall” dei Pink Floyd su cui preferiamo soprassedere, si arrenderà a sé stesso nell’aprile del 2002.
Gli AIC torneranno invece sette anni dopo, con un nuovo cantante, il bravo William Bradley DuVall, e tre album, un dignitoso pretesto per capitalizzare il passato e suonare in tour (anche se il disco del ritorno, “Black Gives Way To Blue” è ancora capace di emozionare e commuovere).

Cosa dire, dunque di “Alice In Chains”, a trent’anni dalla pubblicazione? Il disco (insieme a “Apple” dei Mother Lover Bone e al suddetto  “In Utero”) resta il resoconto storicamente accurato di un gruppo di musicisti talentuosi ed infinitamente fragili, capaci di riscoprire i seventies in un riff e gli anni ’80 nell’ago di una siringa. Di questo cane zoppo, dolente e orgoglioso, ci rimangono comunque le canzoni, storie raccontate senza pudore con lo struggimento compiaciuto di un adolescente, che da una parte dichiara di voler morire prima di diventare vecchio e dall’altra si sente immortale, perché, come dicevano gli Whipping Boy in un piccolo hit di quegli anni, “When we were young, nobody died, and nobody got older”.