La proiezione più bella è stata quella sul prato accanto al Kursaal, un piccolo schermo la cui potenza era nelle parole e in ciò che affermavano per una serata in sostegno della Palestina: libri, dolci, fotografie bandiere «Free Palestine» – l’iniziativa sarà replicata il 16 a dire ancora una volta basta al genocidio che Israele sta compiendo a Gaza nei giorni in cui il governo di Netanyahu ne ha deciso l’occupazione mentre i morti per fame sono ormai centinaia e l’esercito di Israele continua a uccidere i giornalisti, gli ultimi i cinque reporter e operatori di Al Jazeera ieri, per silenziare ogni informazione sui suoi crimini.
Il primo fine settimana di Locarno 78 è stato anche quello del cinema italiano, con la presentazione del bel film d’esordio di Margherita Spampinato – nei Cineasti del presente – Gioia mia, romanzo di formazione matrilineare di un ragazzino, in Piazza Grande Testa o croce? di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis, passato alla Quinzaine di Cannes, che nelle nostre sale arriverà i primi giorni di ottobre. Una nuova avventura dei due autori di Il solengo (2015) e Re Granchio (2021) nel loro personalissimo paesaggio del mito fra leggende e storie popolari, cartografie e ballate che si tramandano di generazione in generazione.
MA CHE FESTIVAL è questo numero 78 con la direzione artistica di Giona A. Nazzaro riconfermato per i prossimi due anni? Rispetto all’edizione precedente l’impressione è che le presenze siano più numerose, sia sulla Piazza sempre gremita nonostante le polemiche che hanno preceduto l’inizio intorno all’installazione di un nuovo schermo, che nelle diverse sale probabilmente anche grazie a una selezione più attenta agli equilibri fra nomi nuovi e registi affermati, indipendenti e star – da Willem Dafoe a Jackie Chan – o titoli attesi come Sentimental Value di Joachim Trier e nei prossimi giorni la Palma d’oro A simple accident di Panahi che sarà a Locarno – e ieri Mohammad Rasoulof ha ricevuto il primo premio Locarno Città della Pace.
Ciò vale anche nel concorso, ne è un esempio la presenza di Mektoub My Love: Canto Due di Abdellatif Kechiche, il «sequel» di Canto Uno (2017) e di Intermezzo, rimasto impigliato in molte questioni produttive e arrivato senza il regista, ancora alle prese con le conseguenze dell’ictus che lo ha colpito lo scorso marzo. Il suo annuncio nella selezione ha portato sulle rive del lago molti cinefili accorsi per vedere un’opera divenuta nella sua catastrofe quasi leggendaria, e pensando che questa potesse essere un’occasione unica visto che Intermezzo non è mai uscito in sala. Non sono mancate le polemiche soprattutto riguardo al suo autore – del resto abbastanza prevedibili – che in questi anni è rimasto coinvolto in denunce per abusi (smentite dalle inchieste) e per metodi poco rispettosi verso i suoi interpreti su set – una delle protagoniste principali di Mektoub, Ophèlie Bau, alla presentazione a Cannes di Intermezzo accusò Kechiche di avere tenuto una sua scena di sesso senza il suo consenso. Bau però era qui come tutto il cast e a una domanda sull’argomento alla fine della proiezione ha risposto che lei voleva parlare di Mektoub e non delle sue esperienze sul set.
L’ALTRO NOME di peso in corsa per il Pardo d’oro è quello di Radu Jude, il regista rumeno che è uno dei riferimenti del cinema d’autore contemporaneo ha vinto già a Locarno il premio speciale della Giuria col magnifico Do Not Expect Too Much from the End of the World (2023) e alla scorsa Berlinale l’Orso d’argento per la migliore sceneggiatura con Kontinental 25, che di questo Dracula era stato presentato come una specie di «spin off». Girato in due settimane con l’Iphone intorno al Dracula Park, riprende quella critica al capitalismo e alle trasformazioni che mette in atto a partire dalla Romania post Ceausescu, come gentrificazione, espulsione dei più poveri, forse non con la rabbia (social) della protagonista della «Fine del mondo» – la sublime attrice Ilinca Manolache che torna in Kontinental 25 e in Dracula – ma con uguale ricerca di attuare una dissacrazione di stereotipi e buoni sentimenti sociali, politici e soprattutto morali.
Una scena da «Dracula»
E I MOTIVI che caratterizzano le narrazioni di Jude del presente – e di una certa iconografia del passato rumeno – attraversano anche Dracula con quello stile che lo caratterizza e che procede stavolta più che mai per accumuli e digressioni costanti – Jude dice di avere come riferimento la struttura letteraria di Boccaccio prima che il cinema. Dell’iconografia cresciuta intorno all’impalatore di Vlad e al suo mito percorre dunque ogni possibilità, ciascuna può essere un film o il suo abbozzo che cerca in quelle storie e nei frammenti di film che hanno preceduto questo – da Nosferatu a Jesse Franco – suggestioni o azzeramenti, la dimensione popolare e quella più politica. E soprattutto molti possibili Dracula del maschile macho conquistatore e stupratore, molto preso in giro, il sesso e una sua costante presenza in aperta frattura col «politicamente corretto». A fare da guida a questo che si dichiara subito come un burlesque ma in era social, quindi con potenzialità da snuff movie, c’è l’apertura in una specie di teatrino dove ci sono un Dracula un po’ scassato e Vampira che inscenano il loro numero di morsi e possessione, guidati da un presentatore-performer glitterato, che offre poi al pubblico ristretto la caccia al vampiro e il sesso col vampiro – che non ce la fa. Eppure i tanti Dracula che ce li hanno introdotti sono tutti coloro a cui «lo succhiano» – e invece. E poi c’è il narratore, un regista che interroga l’IA dandogli una qualche traccia, le cui risposte sono appunto le variazioni a cui assistiamo spesso assai mediocri.
MA ALLORA QUALE è un Dracula possibile? Il capitale ovvio, che succhia il sangue agli operai come in un videogioco della prima ora. La chiesa falsa e bigotta che si fa vampiro nella figura del prete per derubare la principessa e costringerla a pratiche sessuali con lui sotto ipnosi. È il compagno lavoratore che approfitta dell’ingenua contadina senza dirle che ha una moglie ai tempi della Romania sovietica. O la farsa del romanticismo vampiresco – quello del Dracula di Coppola (1992) peraltro un film bellissimo, di cui accenna un remake capovolto. E così via, detour dopo detour fra gli intermezzi del regista e della sua IA, e quel teatro erotico dove intanto i due sfruttati Dracula e Vampira si sono ribellati diventando così veri target di clienti «ricchi e perbene» che mostrano la loro vera indole criminale e loro sì vampiresca.
Tutto finto, tutto vero proprio come le speculazioni del Dracula Park. Potenzialmente poteva essere un grande film, o un grande gesto filmico, di fatto però Dracula risulta invece l’opera meno riuscita di Jude in cui sembra essersi perduto seguendo la sua ambizione (hybris vampiresca?) o una cattiva lettura dell’«alto e del basso» senza riuscire a controllarla. L’idea di una beffa dell’industria cinematografica e dei suoi format nella filigrana del Vampiro si incaglia nella sua ripetizione che soffoca l’ironia, e quella lucidità con cui Jude affronta i diversi registri tenendoli in equilibrio. E intanto quel gesto (filmico) rimane fine a se stesso.