La vita di Camilla si divide in un prima e un dopo: il prima è l’infanzia serena, trascorsa nella quiete di un paese del Piemonte, in cui tutti si conoscono e dove il tempo è lento per natura. Il dopo è una giovinezza dura, funestata da un terribile incidente: la caduta in un fosso, investita da un omnibus, e l’amputazione di una gamba. Camilla cresce diversa, “una donna a metà”, e quello stesso paese, prima sicuro e accogliente, si rivela diffidente e ostile. Ma il sospetto e l’ignoranza non spossano il suo animo: Camilla diventa fiera e forte, ha la lingua tagliente, la battuta pronta e l’intelligenza vivace. Per Camilla, senza cercarlo, arriva l’amore. È un amore puro quello per Felice, che “non parla mai della sua gamba come di una disgrazia”. Ma è anche un amore sofferto, che affronta la distanza, la discriminazione e il pregiudizio di classe.
Anna Pavignano, celebre sceneggiatrice, torna qui alla forma romanzo. In Come sale sulla pelle (Piemme) dipinge un affresco storico che intreccia temi complessi e adotta lo sfondo piemontese delle sue origini: è una storia fatta di corpi e di parola, di ostinazione e coraggio. Racconta la condizione femminile di fine Ottocento ma anche il dolore dell’emigrazione italiana, in Francia come in America, e lo fa con una lingua vivida e una prosa gentile, che scava nell’intimità dei suoi personaggi.
Cosa l’ha condotta alla storia di Camilla?
«Ho sempre voluto raccontare la diversità. È un tema che ricorre, nella vita come nel lavoro, nei romanzi e al cinema. La mia prima esperienza di volontariato è stata a 14 anni, per un’associazione che si occupa di disabilità. Camilla nasce dalla volontà di costruire una narrazione che ha la diversità come perno e che racconta come si può reagire».
La diversità di Camilla attira odio e pregiudizi, esacerbati dal suo essere donna.
«Eppure non si abbatte. La reazione di Camilla spiazza chi la circonda: dovrebbe chiudersi in casa, accettare il suo destino. Lei invece è energica, spiritosa, non permette alla gente di provare pietà. E questo fa crescere sospetto e diffidenza. È una dinamica nota dell’animo umano: reagire con coraggio alle disgrazie non sempre porta ammirazione. Abbiamo bisogno di compatire. Chi non ce lo consente accende il rancore».
Quali donne l’hanno ispirata?
«Il carattere di Camilla è ispirato al mio desiderio di essere come lei. Ma l’ispirazione arriva anche dalle mie nonne, da mia mamma, da mia sorella: lo spirito del romanzo è legato ai racconti familiari, alle domeniche nella campagna albese».
Camilla ha una fantasia fervida, che si traduce in una scrittura per immagini. Quanto c’è, qui, del suo lavoro di sceneggiatrice?
«Ho una capacità istintiva di rifugiarmi nell’immaginazione, e questo si riflette su tutto il mio lavoro. Dalla sceneggiatura eredito l’abitudine tecnica a pensare per azioni, ma la bellezza della narrativa è la possibilità di lavorare sulla parola: nel romanzo una lieve differenza fra sinonimi diventa fondamentale».
È anche una storia di uomini: sia Felice che il padre, Giovanni, sono figure luminose.
«C’è questo elemento: in famiglia ho conosciuto solo uomini miti. Sono cresciuta con modelli maschili gentili e illuminati, risoluti se necessario ma mai prevaricanti o prepotenti. Gli uomini di questo romanzo li ricordano molto».
Cos’ha significato scrivere del Piemonte, sua terra d’origine?
«È stato un recupero importante. Ho vissuto 30 anni splendidi e intensi, tra Roma e Napoli, ma sono finalmente tornata a sentirmi a casa. Ho recuperato i luoghi e gli affetti, e fatto i conti con alcuni rimpianti».
Quali rimpianti?
«Mi rendo conto che ci sono tante cose che avrei voluto fare o dire, ma non ci sono più le persone».
Lei che lettrice è?
«Mi piacciono i romanzi, le storie. Ma sono anche molto attenta alla forma: sento la necessità, all’interno della storia, di scoprire una lingua nuova, particolare. Voglio imbattermi in una parola e dire: “questa me la devo ricordare”».
Che libro ha sul comodino?
«Primammore di Titti Marrone».