Alcune considerazioni a margine della sentenza n. 132/2025.
1. Mediante la sentenza n. 132/2025, pres. Amoroso, red. Petitti, la Corte costituzionale ha deciso, in via di urgenza, in meno di tre mesi, una questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Firenze in un giudizio civile nel quale la sig.ra M.S. aveva convenuto in giudizio, in particolare, il Ministero della Salute e la Presidenza del Consiglio dei ministri.
L’oggetto del giudizio cautelare instaurato di fronte al Tribunale di Firenze era duplice:
– da un lato, lamentare la mancata introduzione in Italia di una legge sull’eutanasia attiva. Nelle parole della sentenza: “accertare, previa eventuale rimessione di questione di legittimità costituzionale dell’art. 579 cod. pen., la sussistenza, in capo alla stessa ricorrente, del ‘diritto fondamentale ad autodeterminarsi nelle scelte terapeutiche in materia di fine vita, nella sua declinazione del diritto di scegliere, in modo libero, consapevole e informato, di procedere alla somministrazione del farmaco letale in modalità eteronoma e dunque da parte del personale sanitario’”;
– dall’altro lato, la richiesta al Tribunale di una sorta di “parere preventivo” per mandare esente da punibilità il medico che avesse realizzato attivamente il proposito della signora di porre termine alla propria vita, non già autosomministrandosi il farmaco, bensì facendoselo iniettare in vena dal terzo; accertamento preventivo configurabile unicamente per il tramite della questione di legittimità costituzionale relativamente all’art. 579 c.p., che punisce l’omicidio del consenziente. Nelle parole della sentenza: richiesta “al giudice cautelare che il proprio medico di fiducia fosse autorizzato, inaudita altera parte, ad attuare la sua volontà suicidaria, tramite infusione del farmaco letale, che ella non è più in grado di autosomministrarsi”.
2. Sebbene il risultato pratico della sentenza n. 132/2025 appaia nell’immediato favorevole alla difesa della vita dei più vulnerabili, poiché la questione di costituzionalità è stata dichiarata alfine inammissibile, la motivazione della sentenza si segnala per un’impostazione di fondo e per alcuni passaggi altamente problematici.
Anzitutto, si deve rilevare che la questione di legittimità costituzionale è stata dichiarata inammissibile non già per la ragione “più liquida”, ossia più immediata (che nel caso di specie, come si vedrà infra, era l’abuso del processo), o per manifesta infondatezza, bensì per una questione puramente attinente al modo con cui nell’ordinanza di rinvio veniva prospettato il requisito della rilevanza, circostanza -quest’ultima- che non chiude affatto la porta a ulteriori interventi di merito sul tema.
La Corte ha specificato di rigettare espressamente gli altri profili di inammissibilità, ribadendo espressamente di voler ammettere in generale la discussione di questioni di costituzionalità di questo genere: “Queste tesi non colgono nel segno, e le eccezioni che vi corrispondono si rivelano, quindi, prive di fondamento. È dovere di questa Corte darne conto, pur in una pronuncia di inammissibilità determinata da altra e differente ragione, in quanto, rispetto a quest’ultima, le eccezioni stesse si presentano come logicamente preliminari”.
2.1. Sul piano processuale, si trasforma (par. 3.1.) il giudizio sulla “non manifesta infondatezza” in giudizio sulla “non implausibilità della motivazione”, con operazione ermeneutica che, anche a fronte dell’esiguo numero di precedenti citati, appare contrastare con la giurisprudenza consolidata.
Ancor più radicalmente, si ammette un’azione giudiziaria preliminare all’accertamento del vaglio della liceità penale o meno della condotta, vedendo come contraddittore il Governo (par. 3.2.). Fattispecie, questa, che dà vita ictu oculi a una causa meramente strumentale a ottenere qualcosa di estraneo rispetto al perimetro della giurisdizione, in generale, e della giurisdizione civile, in particolare, venendo, dunque, a configurare una tipica forma di abuso del processo.
Al riguardo, la Corte liquida sbrigativamente la questione preliminare, affermando in modo piuttosto apodittico che non si tratterebbe di una “ficta lis”, perché “la ricorrente non agisce per ottenere la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma, ma per l’accertamento del diritto di autodeterminarsi anche al fine dell’esecuzione dell’eventuale proposito di congedarsi dalla vita”.
Motivazione, questa, che la Corte smentisce poco dopo al par. 3.4., ammettendo che solo per il tramite della declaratoria di incostituzionalità l’oggetto della domanda civile potrebbe essere conseguito: “ove questa Corte, entrando nel merito delle questioni, e accogliendole, riconoscesse la necessità costituzionale di un’area di non punibilità per una determinata fattispecie, la scriminante varrebbe anche in sede penale, ove pure il giudizio a quo sia stato di natura civile”.
Si apre, quindi, al contempo la strada alle azioni giurisdizionali volte:
- ad accertare pro futuro la liceità penale o meno di una condotta che vede il ricorrente come potenziale soggetto passivo del reato, poiché questa costituisce “passaggio obbligato” per la pronuncia civile (par. 3.3.) e poiché occorre superare “la non condivisibile tendenza a compartimentare l’ordinamento per settori” (par. 3.4.);
- a stimolare l’apertura di un giudizio costituzionale che, come tale, sembra superare la propria natura di giudizio sulla legittimità costituzionale di una norma, per divenire qualcosa di completamente diverso.
Si supera con uno sbrigativo inciso anche il tema della possibilità di chiamare in giudizio il Governo per mancata introduzione di un provvedimento normativo che il ricorrente ritiene necessario, con portata espansiva potenzialmente indeterminata di questa tipologia di azioni: “nei confronti di queste amministrazioni una domanda è stata spiegata, seppur non di condanna, ma, appunto, di accertamento e tale domanda non poteva che indirizzarsi verso i soggetti potenzialmente coinvolti dalla successiva attuazione del diritto da accertare” (par. 3.2.).
Pur di giungere alla decisione desiderata, la Corte ha dunque stravolto numerosi principi consolidati della propria giurisprudenza, facendolo peraltro con tecnica redazionale che lascia alquanto perplessi.
In particolare, appare abissale la distanza rispetto alla decisione, di soli pochi mesi precedente, n. 66/2025, red. Antonini e Viganò, che appariva ben più accurata nella tecnica redazionale e fondata su tutt’altri presupposti e ragionamenti.
2.2. Per converso, la questione di legittimità costituzionale è stata dichiarata inammissibile semplicemente perché “il giudice a quo non ha motivato in maniera né adeguata, né conclusiva, in merito alla reperibilità di un dispositivo di autosomministrazione farmacologica azionabile dal paziente che abbia perso l’uso degli arti e per tale ragione le questioni sono inammissibili” (par. 4). Segnatamente, è stato ritenuto insufficiente aver interpellato la sola USL locale, dovendosi piuttosto coinvolgere per la ricerca di strumentazioni del genere anche l’Istituto Superiore di Sanità (par. 4.1.).
Pertanto, “l’incompletezza dei riferimenti circa l’esistenza di idonei dispositivi di autosomministrazione, per di più nel sostanziale difetto di un’attività istruttoria amministrativa o giudiziale, rende perplessa la descrizione della fattispecie, il che ridonda in un difetto di motivazione sulla rilevanza della questione”.
Come ben si vede, dunque, la Corte mantiene aperta la strada all’introduzione dell’eutanasia attiva, anche nello stesso giudizio che ha dato origine alla pronuncia, sol che il giudice rimettente motivi in modo più specifico sul tema fattuale della reperibilità di un dispositivo idoneo.
La Corte afferma, infatti, che “la natura fattuale della ritenuta indisponibilità di una strumentazione idonea all’autosomministrazione del farmaco nel caso in esame, o in casi analoghi, non è di per sé ostativa all’accesso al merito delle questioni, poiché il fatto che paralizza l’esercizio di un diritto esibisce un’innegabile giuridicità, divenendo parte costitutiva di una fattispecie giuridica” (par. 3.6.).
Nessuna rilevanza è stata data, in sede motivazionale, al procedimento legislativo avviato al riguardo e, anzi, si prospetta un possibile accoglimento della questione di legittimità costituzionale sull’eutanasia attiva immediatamente dopo il soddisfacimento del requisito procedurale del coinvolgimento dell’Istituto Superiore di Sanità nella ricerca del macchinario e la eventuale constatazione dell’assenza di strumenti che nel caso di specie escludano ogni “rischio di complicanza” in soggetti disfagici (par. 3.5.)
3. Non soltanto la sentenza non si è minimamente curata del procedimento legislativo in corso ma, anzi, con il più classico degli obiter dicta, è entrata “a gamba tesa” nel dibattito parlamentare, di fatto esprimendo, ex ante, posizione su una clausola centrale del testo unificato predisposto dal Parlamento, ossia quella di esclusione dell’erogazione della prestazione da parte del S.S.N.
Al par. 4.2. si afferma, infatti:
“la persona rispetto alla quale sia stata positivamente verificata, nelle dovute forme procedurali, la sussistenza di tutte le condizioni da questa Corte indicate nella sentenza n. 242 del 2019 e precisate nella sentenza n. 135 del 2024 – ovvero, l’esistenza di una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, avvertite come assolutamente intollerabili da una persona tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, o per la quale simili trattamenti sono stati comunque indicati, anche se rifiutati, e tuttavia capace di prendere decisioni libere e consapevoli – ha una situazione soggettiva tutelata, quale consequenziale proiezione della sua libertà di autodeterminazione, e segnatamente ha diritto di essere accompagnata dal Servizio sanitario nazionale nella procedura di suicidio medicalmente assistito, diritto che, secondo i principi che regolano il servizio, include il reperimento dei dispositivi idonei, laddove esistenti, e l’ausilio nel relativo impiego.
Alla luce delle menzionate sentenze, è infatti la struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale, affiancata dal comitato etico territorialmente competente, a verificare, insieme alle condizioni legittimanti, anche le modalità di esecuzione del suicidio medicalmente assistito, nell’esplicazione di un doveroso ruolo di garanzia che è, innanzitutto, presidio delle persone più fragili.
Giova in proposito ricordare che, nella citata sentenza n. 242 del 2019 (Considerato in diritto, punto 5), questa Corte ha già avuto modo di affermare che alle strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale «spetterà altresì verificare le relative modalità di esecuzione, le quali dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze»”.
Non può sfuggire la gravità di quest’ultima affermazione della Corte, posto che la Corte volutamente confonde fra la “verifica” delle modalità di esecuzione, che rientrano fra i compiti del comitato etico, e l’“accompagnamento” nella procedura di suicidio e l’“ausilio” nell’impiego dei mezzi, che solo oggi per la prima volta viene affermato.
Fra “verificare” e “aiutare” corre una differenza sostanziale, linguistica e ontologica abissale, che soltanto alla Corte costituzionale sembra “sfuggire”.
Eppure, la stessa Corte, solo qualche mese prima, nella sentenza n. 66/2025, aveva mostrato di tener ben presente tale differenza e, soprattutto, i rischi collegati a “derive sociali e culturali che inducano le persone malate a scelte suicidiarie, quando invece ben potrebbero trovare ragioni per continuare a vivere, ove fossero adeguatamente sostenute dalle rispettive reti familiari e sociali, oltre che dalle istituzioni pubbliche nel loro complesso”.
Ed invero, la Corte, in quella occasione, avvertiva che “La ‘procedura medicalizzata’, di cui all’art. 1 della legge n. 219 del 2017, è infatti funzionale a garantire che l’accesso al suicidio assistito avvenga nell’ambito di una seria assistenza medica; in sua assenza la patologia non può essere inquadrata in modo adeguato e la prospettiva della morte come unica via di uscita potrebbe essere frutto di un irrimediabile abbaglio”. Si è sempre parlato, dunque e chiaramente, della fase attinente alla verifica dei presupposti, non della fase esecutiva.
La “situazione soggettiva tutelata” – evocata dalla sentenza n. 132 – sembra allora essere di segno completamente diverso da quella ribadita nella sentenza n. 66: si vorrebbe, in buona sostanza, introdurre surrettiziamente, attraverso una sorta di dovere di assistenza al suicidio, un “diritto di morire” che, più volte la Corte ha escluso poiché in insanabile contrasto con il principio personalista di cui all’art. 2 Cost..
4. Questo obietr dictum del par. 4.2. merita una seria riflessione perché, oltre a cambiare le carte in tavola dei termini utilizzati, facendo de albo nigrum e de quadrato rotundum, segna un “salto di qualità” nell’ingerenza della funzione giurisdizionale su quella legislativa.
In sostanza, la Corte non si limita più a imporre al Parlamento di legiferare su un certo tema, ma sembra addirittura voler anche indirizzare la scelta su uno specifico d.d.l. in discussione sul tema fra i molti all’esame del Parlamento.
Di fronte a questo intervento, il Legislatore dovrebbe comunque mantenere inalterata la propria autonomia decisionale, per varie ragioni.
4.1. Anzitutto, perché dalla precedente giurisprudenza della Corte emergeva – come accennato in precedenza – un orientamento opposto sul punto, segno che non è affatto scontato che debba configurarsi un “diritto al suicidio assistito” costituzionalmente garantito, come sembra vagheggiare, non soltanto l’obiter dictum in questione, ma anche e più radicalmente tutta l’impostazione del par. 3 della sentenza, dove le varie eccezioni di inammissibilità sono state rigettate sull’affermato presupposto che non si discuta più di una causa di non punibilità penale, bensì delle modalità di esplicazione di un diritto di autodeterminazione costituzionalmente garantito.
Infatti, la precedente giurisprudenza affermava che “dall’art. 2 Cost. – non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire. Che dal diritto alla vita, garantito dall’art. 2 CEDU, non possa derivare il diritto di rinunciare a vivere, e dunque un vero e proprio diritto a morire, è stato, del resto, da tempo affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, proprio in relazione alla tematica dell’aiuto al suicidio (sentenza 29 aprile 2002, Pretty contro Regno Unito)” (Corte Cost., n. 242/2019). Ciò in quanto “il cosiddetto ‘diritto di morire’ rivendicato in alcune circostanze potrebbe essere paradossalmente percepito dal malato come un ‘dovere di morire’ per non ‘essere di peso’, con un grave abbassamento della sensibilità morale collettiva che tutela le persone più fragili, spesso, peraltro, ‘invisibili’”(Corte Cost., n. 66/2025).
La sentenza n. 132/2025 dà vita, dunque, a una radicale cesura rispetto al consolidato orientamento della Corte, presentandosi come del tutto asistematica ed extra ordinem.
4.2. In secondo luogo, perché a fronte del quotidiano “svilimento” della funzione legislativa da parte delle Corti, adeguarsi senza batter ciglio a questo ulteriore “salto di qualità” segnerebbe un punto di non ritorno. Sembra dunque questa l’occasione giusta per riaffermare finalmente la piena dignità della funzione legislativa rispetto alla quotidiana ingerenza delle Corti.
Vi sono ampi argomenti di merito, come si è detto nel precedente par. 4.1., e di metodo, stante la pacifica non vincolatività dell’obiter dictum, per affrontare il tema in modo motivato, serio ed equilibrato.
Non solo. E’ la stessa Corte che nella sentenza n. 66/2025 afferma, a chiare lettere, che è il legislatore – e solo il legislatore, ovviamente nazionale – a dover operare il bilanciamento fra autodeterminazione della persona e dovere di tutela della vita umana; “bilanciamento nell’operare il quale il legislatore deve poter disporre, ad avviso di questa Corte, di un significativo margine di apprezzamento” (par. 7).
4.3. Infine, sul piano etico, l’introduzione per legge di un “diritto al suicidio”, come prestazione oggetto di possibile pretesa dal S.S.N., renderebbe in tutto equivalente la legge sul suicidio assistito alla l. n. 194/1978.
Si passerebbe a una soluzione moralmente non accettabile, nemmeno in termini di compromesso, poiché oggettivamente non conterrebbe alcuna restrizione al diffondersi della pratica ma, anzi, ne produrrebbe una generalizzazione e agevolazione.
Il coinvolgimento o meno del S.S.N. nell’erogazione della “prestazione” di aiuto al suicidio costituisce, infatti, il discrimine fra una logica di causa di non punibilità penale (che presuppone, necessariamente, la permanente illiceità penale del fatto e dunque il giudizio di disvalore della condotta) e una logica di diritto, aprendo la strada alla quale nessun valido “paletto” potrà essere posto e mantenuto.
5. Fermo restando che quanto sopra rientra pienamente nelle prerogative del Parlamento e nella normale dialettica istituzionale, occorre essere consapevoli che siamo dinanzi ad un tornante delicato.
Invero, se la Corte non ricuserà questo proprio precedente siccome asistematico rispetto alla propria stessa giurisprudenza, secondo la tecnica dell’overruling nota anche agli ordinamenti di common law, tanto che una legge sul suicidio assistito venga approvata dal Parlamento, tanto che essa non venga approvata, in ogni caso non è ardito preconizzare alla luce della sent. n. 132/2025 – e della tendenza creativa di ampi settori della giurisprudenza di merito – l’introduzione per via pretoria dell’eutanasia attiva, sol che si tratti di evitare possibili rischi di complicanza nella procedura suicidaria, per configurare i quali appare sufficiente per la Corte essere affetti da disfagia.
In questo contesto di “ingerenza” della Corte nelle prerogative del Parlamento, non apparirebbe ingiustificato riappropriarsi pienamente della potestà normativa (che contiene in sé anche la potestà di non normare), decidendo di mantenere il rilievo penale delle condotte di aiuto al suicidio al più prevedendo attenuanti di pena per i casi considerati dalla Corte, oltre in ogni caso a rendere effettivo il ricorso alle cure palliative.
Come rilevato dal Centro Studi Livatino, nella nota del 25 ottobre 2024, infatti, “il giudicato costituzionale riguarda la ‘situazione normativa’ (Ruggeri Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, VII ed., 107), cioè quel congiunto di norme e fatti che si pone alla base della questione di legittimità costituzionale. Una normativa in materia di fine vita non potrà, dunque, riproporre la ‘situazione normativa’ dichiarata illegittima nella suddetta sentenza. Ove, però, intervenendo … sulla L. n. 219, si riassegnasse maggiore rilievo al principio di beneficialità della cura, si infrangerebbe uno dei pilastri della motivazione della sentenza n. 242 nella parte in cui equipara rifiuto della cura e richiesta di morte assistita. Sarebbe così mutata la situazione normativa, da cui il venir meno del giudicato costituzionale”.
D’altronde, se la Corte smentisce sé stessa, è più che lecito chiedersi se il Parlamento debba sentirsi in qualche modo vincolato a scrivere una legge “sotto dettatura”, soprattutto quando l’autore del “dettato” non sembra neppure avere le idee chiare.
Francesco Farri
Domenico Airoma
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