I giochi per la successione a Donald Trump sono già cominciati. Con tre anni abbondanti di anticipo sulla prossima elezione presidenziale. Lo stesso presidente lo ha confermato, ha dato un «endorsement» duplice che segna l’inizio di una gara.
In questi giorni Trump ha indicato come suoi eredi alla guida del movimento MAGA (Make America Great Again), e quindi potenziali candidati alla Casa Bianca nel 2028, sia il suo vice JD Vance sia il segretario di Stato Marco Rubio.
La competizione fra i due diventa quindi quasi ufficiale.
Ha delle conseguenze anche in politica estera poiché tutti e due fanno parte del cerchio ristretto che influisce sulle decisioni di Trump. Lo stesso vertice di Ferragosto in Alaska con Putin può essere influenzato dal ruolo di questi due uomini.
Vance è presente agli incontri virtuali (videocollegamento) di oggi fra il presidente Usa e i leader europei, poi con Vladymir Zelensky. Rubio ha parlato col ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov. Sia Vance che Rubio hanno avuto un ruolo nell’evoluzione recente della politica estera americana.
Che siano ambedue i candidati in pectore alla successione, lo ha detto esplicitamente Trump: ha indicato il suo vice come «il probabile favorito» per subentrargli; ha subito aggiunto però di vedere in ottima posizione il suo segretario di Stato. In alcune conversazioni private trapelate sui media, il presidente si è divertito a eccitare la competizione immaginando il ticket della doppia candidatura nel 2028: «Ho sempre pensato che sarà Vance-Rubio, ma potrebbe anche essere Rubio-Vance». (L’ordine indica chi sarebbe candidato presidente e chi vice). Metterli in gara così presto e in modo così evidente, è anche il segnale che dovranno «guadagnarsi» la sua investitura.
Tutti e due hanno delle storie eterogenee, nessuno di loro era trumpiano all’origine. Il 41enne Vance ha avuto il primo balzo di popolarità nazionale con la sua autobiografia «Elegia americana», che racconta una origine familiare tipica dell’America operaia, bianca e povera, che si è sentita tradita dalle élite e ha finito per votare a destra. Ma quando nel 2016 uscì il libro, all’epoca della prima campagna elettorale di Trump, Vance non lo sosteneva e anzi lo criticò apertamente. La sua conversione a MAGA fu successiva, solo in seguito ne è diventato uno degli esponenti più rappresentativi. In politica estera le sue prime sortite da vicepresidente furono segnate da una ostilità verso l’Unione europea, e dal famigerato «agguato» a Zelensky nello Studio Ovale (febbraio di quest’anno).
Anche il 54enne Rubio viene dai ranghi dell’anti-trumpismo. Fu un avversario diretto dell’attuale presidente nella corsa per la nomination repubblicana del 2016. All’epoca nei dibattiti televisivi definì The Donald «un truffatore», e in risposta venne schernito con l’appellativo di «Little Marco» (un’allusione alla sua bassa statura). In seguito come senatore della Florida si costruì un curriculum nella Commissione Esteri distinguendosi come un «falco», con posizioni dure verso la Cina e anche verso Putin. La sua conversione al trumpismo è stata equilibrata da una fedeltà a quelle linee guida tradizionali di una politica estera conservatrice. Oggi ha un ruolo di spicco in quanto cumula le due cariche più importanti nella strategia internazionale: è segretario di Stato (l’equivalente di ministro degli Esteri), ed è anche il capo del National Security Council, la cabina di regìa per la politica militare e diplomatica dentro la Casa Bianca.
Rispetto a qualche mese fa, le posizioni del duo Vance-Rubio si sono avvicinate. All’origine di questa Amministrazione il vicepresidente incarnava l’ala isolazionista, sprezzante verso le alleanze, talvolta perfino russofila o putiniana. Rubio invece resta fedele al patrimonio storico del partito repubblicano, che ha espresso un presidente come Ronald Reagan, vincitore della guerra fredda contro l’Unione sovietica, con una cultura anticomunista, tutt’altro che incline a compromessi con Putin o Xi Jinping.
Questa convergenza Vance-Rubio può essere visibile nell’evoluzione più recente dello stesso Trump. I toni del presidente sono diventati meno ostili sia verso l’Europa sia verso l’Ucraina. In preparazione dell’incontro con Putin, Trump ha detto che alla fine dei conti la proposta di accordo dovrà essere accettata dall’Ucraina. Pur soggiacendo alla richiesta di Putin che l’incontro sia bilaterale e non allargato ad altri, ha accettato di consultarsi con gli alleati e con Zelensky. Ha alzato il tono sul tema delle sanzioni che potrebbe infliggere alla Russia (caldeggiate da Rubio e da molti altri repubblicani). Ha minacciato un dazio del 50% sull’India se continua a comprare petrolio russo.
Che tutto questo sbocchi in un risultato positivo in Alaska, è un altro discorso: poco probabile, stando alle premesse da cui parte Putin. Però le grandi manovre per la successione e il «patto di non belligeranza» fra i due delfini Vance-Rubio, all’insegna della loro convergenza, ha portato a un atteggiamento di partenza meno «putiniano».
13 agosto 2025
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