Il regista Mohammed Alatar mentre sta montando un video davanti al suo Pc
Il titolo del nuovo film in cantiere è come un grido di allarme per una nuova tragedia incombente, questa volta sulla Cisgiordania. «Tutti adesso parlano di Gaza, ma quello che avviene qui in West Bank non è molto differente» spiega Mohamed Alatar quando ha appena terminato una lezione all’università di Ramallah. Il suo nuovo docu-film si intitolerà “The final chapter”. Il «capitolo finale» secondo il regista palestinese, già autore di una decina di docu-film, è il «trasferimento dei palestinesi in Giordania». Non usa la parola “re-migrazione”, ma il verdetto sul suo futuro e su quello del suo popolo sembra ormai essere già stato scritto da tempo.
«In questi ultimi mesi abbiamo registrato più vittime provocate dalle incursioni dei coloni. Gli insediamenti illegali proseguono e i maggiori donors di questa operazione sono i cristiani evangelici americani. Prima vengono a visitare Hebron, poi vanno a Gerusalemme…» E la terra, in Cisgiordania, è identità politica, religione e, per chi se ne vede espropriato, già dolore per un esodo che pare imminente.
Ora, con il lancio da parte di Netanyahu dell’offensiva finale su Gaza, l’“ultimo capitolo” sembra essere iniziato per tutti i palestinesi, Gerusalemme Est e Cisgiordania comprese. Una nuova “nakba”, una nuova tragedia di cui, come regista, Mohamed Alatar si prepara ad essere testimone. Testimonianza e responsabilità.
«Noi palestinesi vogliamo costruire una nostra narrativa», conservare documenti e un punto di vista che inevitabilmente diverrà memoria del suo popolo che con realismo vede già in gran parte destinato all’esilio. «Il cinema – spiega Alatar pacato in un perfetto inglese dalla sua casa a Ramallah – è il miglior modo per costruire una narrativa e in questo modo poter educare la gente». Essere testimoni della propria storia, usando come “taccuino di appunti” la macchina da presa. Per realizzare tutto questo è nato il progetto “The land of shadow” (La terra delle ombre) che attraverso una rete internazionale di fundraising (ST.ART in Italia) vuole renderlo possibile: l’obiettivo è di raccogliere 40mila euro per produrre un docufilm di circa mezz’ora. Un modello di produzione dal basso che pare per tanti aspetti simile a quello di “No Other Land” insignito del premio Oscar, ed ora bersaglio privilegiato dei coloni israeliani.
Documentare quello che sta avvenendo, fare riprese in “presa diretta” e recuperare documenti di prima mano su questa situazione è «molto complesso e pericoloso» spiega Mohammed Alatar. Del resto la sorte di molti reporter e cine-operatori nei Territori è stata a dir poco difficile: dal 7 ottobre, secondo il Committee to Protect Journalist sono morti 186 giornalisti, di cui 178 palestinesi. Un cinema che si fa resistenza non violenta: «Io, come film maker, ho la responsabilità di documentare tutto questo», conclude Mohammad Alatar. La voce che giunge al telefono da Ramallah è molto pacata, segno di determinazione e tenacia incrollabili. La tragedia di Gaza, ha scritto in una sua riflessione Mohammed Alatar «pone l’ultima domanda che conta davvero, la domanda della saggezza: dov’è la nostra umanità?». L’arte, durante una guerra, è una forma di resistenza e denuncia.