Tre persone su cinque in Afghanistan non possono pagare le cure e per ottenerle spesso si indebitano, chiedendo denaro in prestito o vendendo i propri beni. Una su quattro invece deve posticipare o annullare un intervento chirurgico perché non può permettersi di pagarlo. Per le donne la situazione continua a essere molto critica, soprattutto per quanto riguarda la sfera della maternità.
Sono i principali risultati che emergono dal report “Accesso alle cure d’urgenza, critiche e chirurgiche in Afghanistan. Prospettive del popolo afgano e degli operatori sanitari di 11 province”, realizzato da Emergency in collaborazione con il Centro interdipartimentale di ricerca e formazione in medicina dei disastri, assistenza umanitaria e salute globale (Crimedim).
A quattro anni dal ritorno al potere dei Talebani, nell’agosto del 2021, e a causa dei conflitti che coinvolgono oggi il Medio Oriente, l’Afghanistan sembra non essere più una priorità della comunità internazionale. L’analisi di Emergency si pone quindi l’obiettivo di riportare l’attenzione su quanto sia fondamentale che la comunità internazionale e il governo afghano facciano la propria parte per garantire un futuro alla popolazione.
Nello specifico la ricerca, condotta tra settembre e ottobre 2024, si è concentra sull’accesso della popolazione ai servizi di emergenza, intensivi e chirurgici che includono anche la ginecologia e l’ostetricia (in inglese emergency, critical and operative services, Eco). “Riteniamo che queste siano delle cure su cui sia assolutamente fondamentale continuare a investire -racconta ad Altreconomia Francesca Bocchini, referente dell’advocacy per gli affari umanitari e la migrazione della Ong-. Riuscire a erogare questi servizi in ambito ospedaliero crea infatti un effetto a cascata anche per le cure di base e i servizi di prevenzione”.
Questo rapporto rappresenta inoltre la prosecuzione di un lavoro di analisi che aveva portato alla pubblicazione nel 2023 di un precedente lavoro dal titolo “Accesso alle cure in Afghanistan: la voce degli afgani in 10 province”. In quell’occasione Emergency aveva iniziato a indagare quali fossero stati i cambiamenti nell’accesso alle cure di base degli afghani dopo il cambio di governo, quindi dopo la presa del potere dei Talebani. I numeri emersi mostravano chiaramente come le barriere geografiche, economiche e sociali rendessero complicato l’acquisto di medicinali, lo svolgimento di esami diagnostici, il reperimento di personale formato adeguatamente e il raggiungimento delle strutture soprattutto dalle aree più remote del Paese.
Il sistema sanitario afghano è stato infatti gravemente colpito da più di quattro decenni di guerra e occupazione, anni in cui la gran parte delle risorse del Paese è stata diretta alle operazioni militari e non al miglioramento dell’assistenza sanitaria. Come si legge nel report sono state dunque le Ong a fornire i servizi sanitari piuttosto che lo Stato.
Il nuovo rapporto è stato condotto invece prendendo in considerazione le 11 province in cui Emergency lavora, che ospitano quasi 16 milioni di afghani (il 39% della popolazione totale), dove sono stati somministrati 1.551 questionari anonimi a pazienti e accompagnatori in 20 strutture della Ong, 32 questionari a informatori qualificati tra il suo personale e 11 interviste semi-strutturate negli ospedali pubblici con i direttori degli ospedali provinciali, i primari di chirurgia e di ginecologia. Sono quindi tre i punti di vista attraverso cui si delineano le caratteristiche del sistema sanitario afghano in materia di servizi di emergenza, intensivi e chirurgici: quello dei pazienti, quello del personale di emergenza locale di Emergency e quello dei professionisti del settore pubblico.
In linea generale, le risposte raccolte confermano le tendenze emerse precedentemente, aggiungendo un ulteriore tassello: se già l’accesso all’assistenza sanitaria di base è complicato, quello ai servizi Eco, che richiedono infrastrutture ed equipaggiamenti dedicati e maggiore specializzazione e formazione per lo staff, lo è ancora di più.
“L’accesso alle cure continua a essere difficile o molto difficile -spiega infatti Bocchini-. Tra i principali risultati c’è però la necessità di continuare a fornire cure traumatologiche e nello specifico quelle che erano erogate durante i tempi del conflitto. Da un lato perché continuano a esserci ordigni inesplosi, dall’altro perché abbiamo assistito a un aumento del trauma civile principalmente a causa di incidenti stradali. Probabilmente si verificavano anche prima, ma allora si dava priorità all’urgenza di chi aveva ferite d’arma da fuoco o da taglio. È necessario inoltre non perdere le competenze che si sono accumulate fino ad ora”.
Un focus specifico è dedicato alla situazione delle donne nel Paese che, come specifica Bocchini, “sono una categoria particolarmente vulnerabile e quindi esprimono più degli uomini la difficoltà ad accedere alle cure e soprattutto si sentono più insicure, dove per insicurezza non si intende solo il timore per l’incolumità fisica, ad esempio, a causa di un ordigno inesploso”. Il 73,3% delle donne hanno descritto infatti l’accesso come difficile, contro il 61,4% degli uomini.
Tra le principali barriere alla possibilità di curarsi sono stati evidenziati dai pazienti i mezzi di trasporto e la distanza, il 79,1% degli intervistati ha infatti riportato di aver dovuto recarsi in un’altra città, provincia o anche Paese per le cure chirurgiche. Per l’assistenza materna il dato si attesta al 76,2%.
“Le persone sono quasi sempre obbligate a spostarsi per raggiungere i luoghi di cura. Le ambulanze pubbliche o private sono utilizzate in una componente molto residuale e questo, soprattutto per un tipo di cura come quello d’urgenza, denota una mancanza strutturale del sistema -prosegue Bocchini-. Ci si sposta nella maggior parte dei casi a piedi oppure chi ha la possibilità lo fa con un proprio mezzo di trasporto, auto o moto. Questo comporta molto spesso dei ritardi nell’accesso anche alle cure, anche quelle di follow-up. Dopo un intervento chirurgico o dopo, ad esempio, il parto o un intervento ginecologico sarebbe infatti molto importante effettuare visite di controllo. Nella maggior parte dei casi queste visite vengono organizzate ma un paziente su cinque non si è poi presentato oppure non sapeva di doverlo fare, un dato piuttosto importante in cui influiscono anche i costi”.
Il 57,5% dei partecipanti ha riportato infatti di aver affrontato difficoltà finanziarie nel momento in cui cercava cure Eco e il 54,4% problemi generali di pagamento per l’assistenza sanitaria. Il 66% inoltre ha dovuto prendere in prestito denaro o vendere effetti personali per coprire i costi delle cure di emergenza.
“La situazione economica è peggiorata moltissimo negli ultimi anni e sicuramente rimane uno degli ostacoli più rilevanti. Più della metà delle persone che hanno partecipato allo studio dicono che hanno problemi a pagare le cure che teoricamente dovrebbero essere gratuite per la maggior parte delle persone ma poi di fatto viene chiesto loro di pagare per i farmaci, per il trattamento stesso, per il trasporto per raggiungere le strutture e quindi di fatto l’accesso non è gratuito”.
Il report si chiude poi con una serie di raccomandazioni che, come spiega Bocchini, sono state elaborate a partire dagli input ricevuti dai pazienti ma soprattutto dei direttori degli ospedali ascoltati.
“Questi hanno confermato tutte le carenze citate e hanno espresso diverse necessità, tra cui la possibilità di avere un sistema di riferimento pre-ospedaliero -aggiunge Bocchini-. Quindi il paziente dovrebbe essere trasferito direttamente dalla propria abitazione privata o dal luogo in cui si trova verso gli ospedali, in modo corretto e in tempi adeguati. Per questo è anche necessario un sistema di comunicazione tra ospedali per cui deve essere possibile sapere se in una struttura è presente un equipaggiamento o una specialistica. Un’altra richiesta è stata quella di avere personale formato che è uno dei pilastri dell’intervento di Emergency. Ci siamo anche rivolti alla comunità internazionale perché non abbandoni il Paese econtinui a investire nella salute, erogando i fondi necessari. Ad oggi la risposta umanitaria, quindi solo i bisogni più urgenti, sono finanziate al 21%, un dato piuttosto basso. Dall’altra parte chiediamo alle autorità afghane, che hanno e devono avere una responsabilità e un ruolo nell’erogazione delle cure, di riformare il sistema facendo in modo che sia garantita la qualità dei servizi in tutte le componenti che fanno parte del sistema sanitario, quindi dalla prevenzione all’erogazione delle cure primarie, al sistema di riferimento per mezzo delle ambulanze, alle cure specialistiche”.
Infine non può mancare un riferimento all’inclusione delle donne, delle bambine e delle ragazze, sia nel settore educativo sia nel mercato del lavoro e sulle conseguenze sulla possibilità di curararsi.
“Al momento le donne possono ancora lavorare all’interno delle strutture sanitarie, però noi siamo molto preoccupati per il futuro, perché se le bambine continuano a non poter studiare oltre alla scuola elementare ci troveremo presto in una condizione per cui non avremo nessuno da formare -conclude Bocchini-. Noi vediamo che questo ha degli impatti sulla salute materna ma non solo, perché in mancanza di personale femminile è possibile che non sia concesso alle donne di essere visitate. Si innesta così un circolo vizioso per cui la metà della popolazione rischia di essere, oltre che discriminata dal punto di vista della partecipazione pubblica, anche vittima di un potenziale aumento di mortalità”.
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