Il farmacologo Silvio Garattini ha fondato e diretto a lungo l’istituto «Mario Negri» di Bergamo. È da sempre schierato contro le commistioni tra la salute pubblica e l’industria farmaceutica e il «Mario Negri» è diventato uno dei centri di ricerca più importanti a livello internazionale sulla trasparenza e l’etica in campo biomedico. Come molti colleghi, è critico sulla composizione del Nitag, il comitato tecnico del ministero della salute che deve stilare le politiche vaccinali per l’Italia.

Professor Garattini, tra medici scettici sui vaccini e conflitti di interesse il Nitag parte già in mezzo a mille problemi. Potrà lavorare in queste condizioni?

L’inclusione di medici scettici contro i vaccini, che per inciso sono anche convinti dell’utilità dell’omeopatia, è una mancanza di rispetto per chi è morto durante la pandemia e per chi si è dato da fare per salvare il salvabile. A questo punto al ministro rimane una sola possibilità: cancellare la lista e rifarla. Oltre a cancellare i nomi dei due scettici sui vaccini, bisogna rimuovere anche quelli che hanno collaborazioni e consulenze per l’industria farmaceutica. Evitare i conflitti di interesse dovrebbe essere la regola.

È scritto anche nel regolamento del comitato. Ma nessuno sembra averci fatto caso.

Ai conflitti di interesse si dà sempre poca importanza. In Italia su questo tema manca del tutto una cultura condivisa: se in una coppia il marito lavora all’Agenzia del farmaco e la moglie fa consulenze per l’industria farmaceutica nessuno trova nulla di strano. Basta vedere chi è il viceministro, quel Marcello Gemmato che vorrebbe concentrare tutti i servizi nelle farmacie avendo interessi proprio in quel settore. Oggi le farmacie sono già dei bazaar. Potrebbero essere punti utili dal punto dell’informazione e dell’educazione, perché sono diffusi e capillari sul territorio. Però adesso sono supermercati in cui puoi trovare le medicine, ma anche i prodotti omeopatici e i profumi.

Molti pensano che il problema sia irrisolvibile, perché tutta la ricerca medica si fa grazie alle aziende farmaceutiche. Perciò è difficile trovare persone indipendenti e competenti allo stesso tempo.

È difficile trovare studi scientifici in cui non si registri qualche conflitto di interesse. E questo inquina tutta l’informazione scientifica. Le conferenze sono organizzate dalle aziende farmaceutiche. I medici che ci vanno sono spesati dalle stesse industrie. Manca del tutto un’informazione indipendente. Però le persone brave che non hanno conflitti di interesse ci sono.

Impedire la collaborazione tra ricerca pubblica e industria sembra impossibile. 

Certo, lo stesso ministero della salute incoraggia i medici a collaborare con l’industria. Ma sulla base di quale accordo di collaborazione? Se si tratta di uno studio clinico, si stabilisce a priori che si pubblicherà il risultato indipendentemente dall’esito? Oppure è un puro reclutamento di pazienti fatto dall’università sulla base di un protocollo deciso a monte dall’industria farmaceutica, che alla fine deciderà se rendere pubblico il risultato? Il problema dell’indipendenza della ricerca è fortissimo e ogni ricercatore dovrebbe rispettare regole precise nella collaborazione con i privati. Per esempio, all’istituto «Mario Negri» noi pubblichiamo tutti i risultati delle ricerche che facciamo e rinunciamo ai brevetti. Invece le università pubbliche hanno uffici brevetti proprio allo scopo di incentivare queste attività commerciali. Per la ricerca indipendente però servono risorse. Per spendere quanto la Francia in ricerca pubblica dovremmo investire 22 miliardi l’anno in più. E la mancanza di fondi giustifica il ricorso alla collaborazione con le industrie.

Come trovare queste risorse?

Una ventina d’anni fa avevamo ottenuto una legge che assegnava il 5% delle spese pubblicitarie sostenute dall’industria farmaceutica all’Agenzia del Farmaco affinché svolgesse ricerche indipendenti. Quei soldi sono stati gradualmente ridotti e oggi la ricerca indipendente praticamente non esiste più. Uno studio clinico costa almeno un milione di euro, i finanziamenti quando ci sono arrivano a centomila euro. Ma nessuno vuole fare qualcosa per questo, anche se sarebbe facile. Con la ministra Grillo (governo Conte 1, ndr) avevamo visto che bastava una revisione sistematica del prontuario farmaceutico per ricavare cinque miliardi di euro di risparmi con cui si finanziare la ricerca indipendente.

Pochi immaginano che i farmaci siano valutati solo sui dati raccolti dalle stesse aziende.

È un problema strutturale. Per approvare un farmaco sono richiesti tre requisiti: qualità, efficacia e sicurezza. Ma non è necessario dimostrare che il nuovo farmaco sia migliore di quelli che già esistono per la stessa indicazione terapeutica. Perciò ogni azienda può commercializzare il suo farmaco sostenendo che sia il migliore sul mercato. È così che siamo arrivati a avere centoventi farmaci contro l’ipertensione, l’ultimo è stato approvato un mese fa. Ci sono anche settantacinque prodotti contro il diabete. Quale deve prescrivere il medico, se non ci sono studi indipendenti che li mettono a confronto? Basterebbe aggiungere ai tre requisiti un quarto, il valore terapeutico aggiunto. Ma l’industria farmaceutica si oppone, perché immettere un commercio un farmaco diventerebbe molto più difficile.