Il vertice fra Donald Trump e Vladimir Putin in Alaska si tiene in una giornata che per molti paesi europei è festiva. È sia una festa di origine romana, le Feriae Augusti, che celebrava il riposo e i raccolti, sia una festa religiosa cristiana che commemora l’Assunzione di Maria. Ma poiché si parlerà di una guerra, un’altra ricorrenza è importante: il 15 agosto di 80 anni fa il Giappone si arrendeva, l’imperatore Hirohito annunciava alla nazione la capitolazione. Il Giappone fu ricostruito sotto l’occupazione americana diventando una fiorente e prospera liberaldemocrazia. Non ha mai firmato un vero trattato di pace con l’Urss-Russia, che Tokyo accusa di avere occupato illegalmente alcune isole del suo arcipelago. La Russia rimane una potenza del Pacifico – la scelta dell’Alaska ci ricorda anche questo – e per il Giappone la sua aggressione contro l’Ucraina è stata un segnale di allarme quasi altrettanto acuto quanto per gli europei. Tanto più da quando la Corea del Nord – dittatura con bomba atomica e il grilletto missilistico facile – è scesa in campo in Ucraina.
Il vertice Trump-Putin arriva poco dopo l’80esimo anniversario delle bombe su Hiroshima e Nagasaki. Poiché Trump è il Grande Satana per eccellenza, l’antiamericanismo raggiunge uno dei suoi apici: non è nuovo, ci furono altri accessi di febbre anti-Usa negli anni Sessanta, Settanta, e dopo l’11 settembre 2001; ma la recrudescenza attuale tocca nuovi record. Ne fa parte un revival di revisionismo storico sull’olocausto nucleare del 1945. Vengono riesumate antiche accuse: le bombe atomiche non erano affatto necessarie per finire la guerra, furono un’atrocità gratuita. Ma chi ha pronunciato queste accuse per primo? Indovinate…
«L’uso della bomba atomica, con il suo indiscriminato massacro di donne e bambini, rivolta la mia anima». Quelle dure parole di condanna, scritte tre giorni dopo il bombardamento di Hiroshima il 6 agosto 1945, non provenivano da un giapponese; né da qualche intellettuale della sinistra occidentale. Furono scritte invece da un conservatore di grande rilievo: l’ex presidente repubblicano degli Stati Uniti Herbert Hoover.
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Siamo in un’epoca in cui è di moda il revisionismo storico, fino a esercitare un’egemonia. L’atomica su Hiroshima e Nagasaki non era affatto necessaria, la guerra sarebbe finita comunque, quello fu un crimine contro l’umanità, la prima prova del carattere malvagio e oppressivo dell’America. Queste affermazioni sono diventate dei luoghi comuni negli ambienti accademici statunitensi ed europei. Le circostanze storiche assai complicate in cui fu deciso il lancio dell’atomica vengono spazzate via da esperti improvvisati, che hanno una risposta facile a tutto. Oggi questo revisionismo storico accomuna le sinistre radicali in Occidente, il mondo del fondamentalismo islamico, Xi Jinping e Putin, nel demonizzare la storia degli Stati Uniti come un grande romanzo criminale. Non sanno di essere stati preceduti molti decenni fa, da compagni di strada sorprendenti.
La prima critica radicale contro la bomba atomica, più ancora che da alcuni scienziati pacifisti, venne dalla destra americana. L’ex presidente Hoover, nemico implacabile del suo successore democratico Franklin Roosevelt, fu solo un esempio. Nel 1959 Medford Evans, un conservatore che scriveva sulla rivista National Review—il periodico fortemente nazionalista e marcatamente di destra diretto da William Buckley—affermò: «L’indifendibilità del bombardamento atomico di Hiroshima sta diventando parte del credo conservatore nazionale.» L’anno prima National Review aveva pubblicato un articolo aspramente critico nei confronti della bomba atomica, «Hiroshima: assalto a un nemico già sconfitto». Come Hoover, quel saggio del 1958 denunciava il bombardamento atomico come un omicidio di massa del tutto gratuito.
Quegli episodi—Hoover nel 1945 e poi National Review—non furono anomalie nella destra statunitense dell’immediato dopoguerra. Molti noti reazionari americani—giornalisti, ex diplomatici e ufficiali militari in pensione o talvolta in servizio, nonché alcuni storici e politologi di destra—criticarono il bombardamento atomico. Sostenevano spesso che fosse stato inutile, immorale, e che condizioni di resa più morbide avrebbero potuto porre fine alla guerra senza un massacro di tali proporzioni.
Denunciare il lancio delle due atomiche come un orrore ingiustificabile da parte della destra Usa è una posizione antica, che si situa all’interno di un revisionismo storico più generale. Contesta l’idea che il coinvolgimento degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale fosse inevitabile e che Roosevelt avesse avuto ragione a contrastare l’isolazionismo della sua opinione pubblica. Una delle tesi di destra è che Roosevelt non entrò in guerra per difendere la democrazia contro i nazifascismi bensì perché motivato da fattori economici, come i legami commerciali e finanziari con le potenze alleate, nonché dalla lobby ebraica. Un elemento chiave di questa prospettiva è la sfiducia generale verso una politica estera interventista, considerata dannosa per gli interessi nazionali americani e potenzialmente foriera di conseguenze indesiderate, o addirittura guerre criminali. È impressionante rilevare le tante convergenze fra questa tesi della destra Usa, e il revisionismo attuale della sinistra antiamericana: come spesso accade gli estremi si toccano.
Altrettanto singolare è il fatto che il revisionismo antiamericano sul bombardamento atomico del 1945 è rimasto più discreto e minoritario in seno al Giappone (pur esistendo). Una spiegazione è questa: a Tokyo anche l’estrema sinistra maneggia con molta cautela l’argomento per cui l’atomica non fu necessaria concludere la guerra, perché teme che questo serva ad assolvere l’imperatore.
Nell’anno 1989 quando morì Hirohito il sindaco di Nagasaki osò affrontare il tabù delle responsabilità dell’imperatore: quando quel sindaco sopravvisse a un attentato e poi venne rieletto, ebbe anche l’appoggio del partito comunista. Per la sinistra giapponese condannare l’America come l’Impero del Male è un esercizio pericoloso, può sfociare nella rivalutazione del proprio passato militarista. Il popolo segnato dalla tragedia di Hiroshima e Nagasaki, è quello più cauto nell’abbracciare l’antiamericanismo, per timore di risvegliare i demoni del proprio passato. Nella moderazione con cui i giapponesi maneggiano quella storia, c’è una saggezza che dovrebbe servirci da lezione.
Un’altra ragione per cui i giapponesi sono spesso più lucidi ed equilibrati di noi nei giudizi storici, va trovata in un antefatto che precedette l’olocausto nucleare di Hiroshima e Nagasaki. Cinque mesi prima delle due bombe A, i terribili bombardamenti incendiari su Tokyo del 9 e 10 marzo 1945 avevano fatto un numero di vittime abbastanza simile alle due deflagrazioni nucleari: centomila morti. È comprensibile che l’atomica abbia lasciato un segno indelebile nella memoria di tutti noi, come qualcosa di diverso, una rottura, un tremendo salto di qualità nella potenza distruttiva degli arsenali bellici (anche per via degli effetti della radioattività, protratti nel tempo). Talvolta però si tende a dimenticare che il confine tra armi «convenzionali» e nucleari non è così netto. In Giappone delle lapidi commemorative – molto discrete – ricordano che a Tokyo fu inflitta una punizione «convenzionale», non per questo meno terribile.
Il revisionismo storico sull’atomica venne inaugurato dalla destra americana con Hoover ma poi ebbe seguaci a sinistra, da subito. Le mobilitazioni «pacifiste» contro l’arma atomica dilagarono in America e in Europa, con il sostegno attivo dell’Urss di Stalin; per poi placarsi di colpo quando Mosca riuscì a costruirsi la sua, di atomica. Cominciarono le distinzioni fra arsenali nucleari «buoni» e «cattivi». Un vertice di ipocrisia fu raggiunto negli anni Settanta, quando l’Urss schierò nuovi missili a testate nucleari puntati contro l’Europa, gli SS-20: nel silenzio generale. Quando invece la Nato tardivamente ripristinò un equilibrio strategico installando a sua volta gli «euromissili», le piazze si riempirono di manifestazioni anti-nucleari. Un grande leader della sinistra europea, il presidente socialista François Mitterrand, osservò con sarcasmo: «I missili sono a Est, i pacifisti a Ovest». La stessa asimmetrìa l’abbiamo vista durante la guerra in Ucraina. Ogni volta che da Mosca sono arrivavate minacce di usare armi nucleari, in Occidente non si sono riempite piazze di manifestazioni, non sono state circondate le ambasciate russe per protestare contro il ricatto, al contrario si è sentito un coro di appelli a mollare l’Ucraina subito al suo destino di preda, per non rischiare l’Olocausto. La storia si ripete, la prima volta in forma di tragedia, la seconda come farsa: lo scrisse un certo Karl Marx. Oggi con Trump alla Casa Bianca l’antiamericanismo sembra godere di una «superiorità morale» che lo rende ancora più popolare.
14 agosto 2025, 17:19 – modifica il 14 agosto 2025 | 18:17
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