C’è una domanda che ritorna, ogni volta che apriamo un libro scritto da una donna. Una domanda che non pronunciamo ad alta voce, ma che resta lì, sospesa: chi può parlare davvero, e chi viene ascoltato? Non è questione di bravura. È questione di potere, di fiducia concessa o negata.
Scrittrici dietro nomi maschili: la resistenza in punta di penna
Per secoli, il potere di dire è stato dato più volentieri a un uomo. Il suo pensiero era ritenuto universale. Quello di una donna, particolare. Così, molte scrittrici hanno trovato un modo per attraversare questa barriera invisibile.
La maschera di carta
Non un travestimento di carne, ma di carta: un nome maschile. Una maschera leggera, ma capace di cambiare il destino di un libro. Un passaporto falso per entrare in territori dove la voce femminile era guardata con sospetto.
Mary Ann Evans lo sapeva bene. Come George Eliot, poteva scrivere di religione, politica, ingiustizia. Con il suo vero nome avrebbe avuto in dono solo la piccola stanza del romanzo domestico. “George Eliot” era la chiave per aprire le porte.
Libertà anche fuori dalla pagina
Per Aurore Dupin, alias George Sand, la scrittura era inseparabile dalla vita. Non bastava firmarsi come un uomo: voleva camminare nelle stesse strade, respirare la stessa aria. Indossava abiti maschili, fumava sigari, si sedeva nei caffè parigini dove le donne non erano ammesse. Era un’affermazione quotidiana: io esisto, qui, tra voi.
Le sorelle dietro i Bell
Charlotte, Emily e Anne Brontë si nascosero dietro Currer, Ellis e Acton Bell. Vivevano in una casa circondata da brughiere, lontane dal mondo, ma sentivano il peso dello sguardo esterno. Con un nome maschile avrebbero potuto far leggere i loro manoscritti senza essere liquidate con un sorriso di sufficienza. Avevano ragione.
Quando il neutro è un rifugio
Harper Lee, in un’America che non era poi così diversa dall’Inghilterra vittoriana, scelse un nome breve, essenziale, che non tradisse il genere. “Il buio oltre la siepe” nacque così, da una firma neutra, capace di scivolare senza attriti nella mente del lettore.
L’Italia e il nome in prestito
Anche qui, dove il legame con il nome è spesso identità, accadde lo stesso. Elsa Morante, che raccontava con precisione e tenerezza il mondo dei bambini, firmò a volte come Antonio Carrera. Per protezione? Per non essere rinchiusa in una sola immagine? Forse entrambe le cose.
Non un inganno, ma un atto d’amore
Non era negare se stesse. Era, anzi, un atto di fedeltà alla propria voce. Volevano che fosse ascoltata per il contenuto, non per il corpo che la pronunciava. In questo c’è una delicatezza estrema: scegliere di restare invisibili per lasciare visibile il messaggio.
E oggi?
Oggi, almeno in apparenza, le donne possono firmare col proprio nome. Ma possiamo farlo davvero senza essere etichettate? Quante volte ancora sentiamo dire “è brava… per essere una donna”? Quanto spesso il giudizio si colora di pregiudizio?
Quelle firme maschili sono state una rivoluzione silenziosa, fatta con l’inchiostro e non con le armi. Hanno aperto varchi. Hanno insegnato che il nome non è solo una parola sulla copertina: può essere uno scudo, un trampolino, una mappa per arrivare dove non ci volevano.
E forse, anche oggi, sotto altre forme, il travestimento resta necessario. Solo che lo chiamiamo in un altro modo.