Certe storie arrivano in sala col passo leggero di una risata e finiscono per lasciare il pubblico con un nodo alla gola. Quando Il sorpasso debuttò nel dicembre 1962, sembrava la classica commedia estiva: dialoghi irresistibili, paesaggi assolati, il carisma trascinante di Vittorio Gassman e la timidezza impacciata di un giovanissimo Jean-Louis Trintignant. Ma sotto la superficie solare di questa road movie in pieno Ferragosto si nasconde un ritratto impietoso dell’Italia del boom economico, una satira che, dietro il sorriso, mette a nudo vizi, contraddizioni e fragilità di un’intera nazione.
Roma è vuota, le serrande abbassate, le strade immobili nel caldo di metà agosto. Bruno Cortona (Gassman) sfreccia sulla sua Lancia Aurelia B24 alla ricerca di un telefono. Il caso lo porta davanti a Roberto Mariani (Trintignant), studente di giurisprudenza riservato, quasi invisibile, che osserva il mondo dalla finestra. Da un favore chiesto per una telefonata nasce un invito ad “un semplice aperitivo”. Ma l’aperitivo diventa un pranzo, poi un pomeriggio, infine un viaggio di due giorni lungo la costa tirrenica.
Bruno è l’Italia rumorosa, impulsiva, furbesca, che misura il successo in soldi, automobili e conquiste; Roberto è la parte timida, prudente, che si aggrappa alla sicurezza delle regole e alla speranza di un futuro ordinato. Nel corso della fuga, però, le barriere si assottigliano: il giovane scopre il brivido dell’improvvisazione, mentre il maturo viveur comincia a intravedere il vuoto che si porta dietro.
Dino Risi, con la sceneggiatura firmata insieme a Ettore Scola e Ruggero Maccari, costruisce un racconto in costante movimento, dove il ritmo brillante e i dialoghi veloci mascherano un’anatomia spietata dell’Italia anni ’60. Bruno è scorretto, arrogante, misogino, razzista, eppure dotato di una vitalità contagiosa. Roberto, al contrario, è educato e contenuto, ma non immune da pregiudizi e rigidità. Insieme attraversano spiagge gremite, locali notturni, strade di campagna, case di famiglia cariche di segreti taciuti.
Il film diventa così un inventario di tic e ossessioni dell’epoca: la diffidenza verso lo straniero, l’ostentazione del benessere, la distanza tra città e provincia, il culto della furbizia come virtù nazionale. Persino gli episodi più comici — come la fuga da un gruppo di turisti tedeschi o la multa “passata” a un’altra auto — sono punteggiati da indizi di un malessere più profondo.
La visita alla famiglia di Roberto è il momento in cui la leggerezza inizia a incrinarsi. Il giovane, legato ai ricordi dell’infanzia, scopre attraverso gli occhi di Bruno verità che non aveva mai voluto vedere: un cugino figlio illegittimo, amori taciuti, vite spente dietro finestre chiuse. È il primo passo verso un cambiamento reciproco: Roberto si accorge di quanto fosse ristretto il suo orizzonte, Bruno lascia intravedere ferite che l’ironia non riesce a coprire.
La corsa riprende, ma qualcosa è cambiato. Bruno, per la prima volta, appare turbato: rivede la sua ex moglie, incontra la figlia adolescente e tenta goffamente di recuperare un rapporto mai costruito. In quei momenti, l’uomo che sembrava invincibile mostra il suo lato più fragile: un padre mancato, incapace di adattarsi a un’esistenza “normale”.
Poi, la svolta. In un attimo, la corsa finisce. La macchina, la strada, il vento in faccia: tutto si spegne in un incidente improvviso. Roberto muore. La vitalità di Bruno, quella stessa forza che aveva trascinato il ragazzo fuori dalla sua gabbia, si rivela distruttiva. Il sorpasso finale è quello che non lascia scampo. Non è un sermone morale, ma una constatazione: la vita va vissuta, ma ogni corsa cieca ha il suo prezzo.
Il sorpasso non è solo una delle vette della commedia all’italiana: è una radiografia lucida e amara dell’Italia del “miracolo economico”, dove la velocità dello sviluppo nascondeva profonde fratture sociali. Risi riesce a raccontarlo senza prediche, lasciando che siano i gesti, le parole e i silenzi a parlare. Rivederlo oggi significa scoprire che quel ritratto ferocemente attuale non appartiene solo agli anni ’60. Perché ogni Paese, quando corre troppo, rischia di non vedere la curva che lo aspetta.
Leggi anche: Questo film italiano cambiò per sempre il modo di fare cinema. Ma pochi lo ricordano
© RIPRODUZIONE RISERVATA