Una miniera

Una miniera – Unsplash

Believe in deep (credere profondamente): Niccolò Scaffai ci racconta di aver ritrovato questa frase in un taccuino su cui prendeva appunti mentre progettava il suo ultimo saggio. Gli aveva ricordato le parole di Starbuck in Moby Dick: «Io guardo nel profondo e credo» (I look deep down and do believe). La frase che si era segnato l’aveva letta proprio sul fianco di una barca: mentre lavorava a un libro sulla profondità, suonava quasi come un’esortazione. “Credere profondamente” in quel momento poteva significare anche credere nella profondità. Nel frattempo quella barca è salpata e il libro è arrivato in porto. Si intitola Sotto l’inesauribile superficie delle cose. Il paradigma della profondità nell’immaginario dell’Antropocene (Aboca, pagine 180, euro 24,00). L’autore, professore di Letteratura italiana contemporanea e Letterature comparate all’Università degli Studi di Siena, mostra in che modo l’ecologia e la profondità entrano in relazione nell’immaginario contemporaneo, prendendo spunto soprattutto dalla letteratura ma anche dalla scrittura scientifica, dal cinema, dalle arti figurative. Lo fa in una serie di capitoli densi di riferimenti culturali, ma sempre dotati di una scrittura vivace e avvincente.

Professor Scaffai, perché ha pensato di dedicare in libro al tema della profondità?

«La profondità è un motivo sempre più ricorrente. Alcuni anni fa ho cominciato a rendermi conto di quanto frequente e cruciale fosse, nei romanzi e in altre forme narrative, la presenza di spazi sotterranei e sottomarini da cui emergono fossili, ossa, scorie, petrolio. Si può dire perciò che la profondità è diventata una costante (o un paradigma, come lo definisco nel libro), capace di fornire una chiave di lettura del mondo in cui viviamo, dell’insieme di relazioni ecologiche, sociali, politiche del quale facciamo parte».

Qual è questa chiave di lettura?

«Il nostro stesso sistema economico-energetico dipende dalla profondità, cioè dal petrolio estratto dal sottosuolo, il cui consumo è a sua volta tra i maggiori responsabili della crisi climatica. Chiamiamo Antropocene l’epoca in cui l’impatto dell’essere umano è diventato così grande da alterare l’equilibrio del pianeta: un’alterazione che dipende in gran parte dagli effetti ambientali causati dallo sfruttamento delle risorse prelevate dal sottosuolo. Del resto, il nesso tra profondità e Antropocene è costitutivo: è nelle sedimentazioni geologiche, infatti, che la scienza cerca le prove della discontinuità fra l’epoca attuale e l’Olocene; è su evidenze stratigrafiche, come la presenza di plutonio quale effetto dell’attività atomica, che si basa la proposta di far coincidere l’inizio dell’Antropocene con la cosiddetta “Grande accelerazione”».

In che cosa si differenzia questo nuovoparadigma della profondità rispetto ai modelli letterari e culturali precedenti?

«L’attrazione esercitata dal mondo sotterrano è sempre stata forte: la scoperta di tesori sepolti o sommersi, così come i viaggi al centro della Terra e le discese negli inferi sono archetipi che hanno avuto grandissima fortuna nel mito e nella religione, nella letteratura e perfino nella scienza. Le stesse scoperte scientifiche della modernità hanno alimentato un immaginario prevalentemente fantastico. Basterà citare La terra cava (1856) di William Morris, il Viaggio al centro della terra (1864) di Jules Verne, la Storia di Arthur Gordon Pym (1838) di Edgar Allan Poe, La macchina del tempo (1895) di H.G. Wells. Sono tutti esempi di una profondità fantastica e avventurosa. Invece, le catabasi di cui si parla in questo libro non promettono la scoperta di mondi meravigliosi o terribili, ma mirano alla conoscenza profonda della natura, che può riflettersi nella conoscenza di sé e dell’umano, al di là del singolo individuo o “eroe”».

Lei sostiene nel suo libro che la profondità non riguarda solo la dimensione dello spazio, ma anche quella del tempo. Infatti parla di un «cronotopo della profondità». Perché?

«Cronotopo nel senso proprio di una “interconnessione dei rapporti temporali e spaziali”, come l’ha definita il grande teorico della letteratura Michail Bachtin. Il “tempo profondo” (dall’inglese deep time) è quello che precede e supera i confini del tempo umano, in senso biologico e storico, includendolo e obbligandoci perciò a osservare l’andamento delle nostre esistenze, società e culture anche in quella prospettiva di lunghissima durata. Così, insieme allo spazio, anche il tempo è un asse per determinare le coordinate dell’Antropocene; attraverso il deep time, infatti, hanno preso forma la nostra specie e la sua relazione con l’ambiente».

Uno dei temi che ricorrono nel suo saggio è quello dell’emergenza ambientale. Qual è il valore aggiunto della letteratura (rispetto ad altri campi del sapere) in relazione a questa tematica? Che cosa ci dicono romanzi e poesie che la scienza magari non è in grado di dire? O la differenza sta nel come più che nel cosa?

«Nel suo libro intitolato Possiamo salvare il mondo, prima di cena (2019), Jonathan Safran Foer scrive che la letteratura aiuta a credere in ciò che sappiamo, per esempio dando forma e immagine a quello che i dati scientifici illustrano astrattamente. Per farlo può ricorrere a ciò che lo scrittore indiano Amitav Ghosh nella Grande cecità (2016) chiama l’”impensabile”: una categoria che può assorbire elementi magici e fantastici, ma non per evadere dalla realtà. Al contrario, la funzione dell’impensabile è mostrare come la comprensione del reale richieda di uscire dal modo comune di pensare, per dare spazio ad altre forme di sapere. È questo il valore aggiunto dei libri di cui parlo: dai racconti di Italo Calvino a quelli di Primo Levi, da Storie dalle profondità del mare (Under the Sea Wind, 1941) di Rachel Carson a Here (2014)di Richard McGuire, da Un fungo alla fine del mondo di Anna Tsing (2015) a L’età del fuoco (2023)di John Vaillant».

Ma la letteratura può dare davvero un contributo alla causa ecologica? I libri sono in grado di favorire un cambiamento?

«La letteratura non può direttamente intervenire sul negativo, esercitando una virtù curativa o riparatoria (crederlo sarebbe un’illusione o un travisamento). Ma può creare una risonanza condivisa, che in certi casi consolida la “presenza” davanti alla crisi. Ogni crisi è sempre avvertita innanzitutto sul piano esistenziale, ma entra in una dialettica anche extraindividuale, determinata da elementi materiali che coinvolgono un’intera comunità. Tra questi elementi ci sono oggi le conseguenze di fenomeni “naturali” (carestie, epidemie) che ricadono sulle popolazioni dei Paesi più esposti e, al loro interno, sulle categorie economicamente e socialmente più svantaggiate».

Il filosofo Glenn Albrecht ha chiamato solastalgia (”nostalgia del conforto”) il disagio di coloro che subiscono gli effetti di eventi climatici, crisi ecologiche, disastri naturali…

«È una condizione ben rappresentata in uno dei libri di cui parlo, Rombo della scrittrice tedesca Esther Kinsky (2022), sul terremoto del Friuli. In questo caso è proprio la discesa nella profondità, materiale e simbolica, che permette di attingere alla memoria degli spazi, per riportare in superficie gli elementi (storie, relazioni, conoscenze) che collegano l’individuo all’oikos, casa e ambiente al tempo stesso. Non necessariamente per comporre vicende consolatorie, ma spesso per esporre le ferite non rimarginabili, gli effetti non sanabili di una crisi tanto ambientale quanto esistenziale e politica».