Il diavolo veste jeans sdruciti e una vecchia maglietta dei Rolling Stones. Ha due grosse ali membranose che spuntano dalle scapole e le pupille di fuoco. Appare nel parcheggio dell’ospedale, protetto dal buio. La giovane dottoressa, stanca dopo il turno di notte, crede di avere un’allucinazione. Ma poi Lucifero si manifesta regolarmente, sempre più vicino, sempre più incalzante. La dottoressa, senza nome, è la narratrice di La giusta distanza dal male, esordio di Giorgia Protti, medico internista che per anni ha lavorato in Pronto soccorso.

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La protagonista sta perdendo l’anima, si è tuffata così in profondità nel dolore degli altri da non provare più compassione. E il diavolo le propone un patto scellerato che va contro tutto ciò in cui lei crede. La ricompensa è la salvezza.

L’inferno del Pronto Soccorso raccontato da Giorgia Protti

Protti ha il coraggio di raccontare dall’interno il girone infernale del Pronto soccorso, descrivendo medici che dubitano di sé stessi, stremati dalla mancanza di sonno e pasti regolari, che hanno il terrore di affrontare un altro turno e che a volte provano odio nei confronti dei pazienti. Salvo poi vergognarsi di questa loro disumanizzazione.

Giorgia Protti
è nata a Torino
nel 1988. Medico internista, ha lavorato per
anni nel Pronto soccorso di un grande ospedale. La giusta distanza dal male è il suo romanzo d’esordio. (foto Davide Bonaiti)

È stato difficile per lei, che è medico, rivelare cosa si possa nascondere dietro il camice bianco?
Questo libro non è un’autobiografia, ma sicuramente ho attinto dalla mia esperienza ed è stato complicato rappresentare un mondo di medici imperfetti. Tutti sono convinti che gli operatori sanitari siano onniscienti e infallibili e anche tra noi esiste il tabù. Non si parla della fragilità e del senso di colpa che spesso proviamo.

Quali sono state le reazioni dei suoi colleghi?
All’inizio ne avevo paura, pensavo che sarebbero state ostili. Invece in queste settimane continuo a ricevere messaggi di operatori sanitari che mi ringraziano per aver descritto quello che succede tutti i giorni.

Come le è venuto in mente questo diavolo in jeans e maglietta da rockettaro?
È stata una suggestione. Era mezzanotte, ero appena uscita dall’ospedale, faceva freddo, c’era la nebbia. Mi era sembrato di sentire un rumore. E mi sono immaginata questa creatura. Per la sua personalità ho preso spunto da Woland di Il maestro e Margherita. Anche il mio diavolo ha un’ironia sibillina ma un fare tentatore.

“La giusta distanza dal male” di Giorgia Protti, Einaudi, 256 pagg, 19,50 €

Che cosa rappresenta Lucifero in questa storia?
Diverse cose. Il male come entità metafisica, ma anche l’esteriorizzazione di un certo sentire della protagonista. Lui fa tutte quelle domande che lei preferisce non porsi – “Ci si può salvare dalla sofferenza?”, “Che valore si dà alla propria anima?” – e la mette di fronte a un lato di sé che si sta sgretolando, perché sta perdendo il contatto con la realtà e con le persone. Ormai lei è come un morto che continua ad abitare un corpo vivo.

La dottoressa viene lasciata dal fidanzato e dagli amici e il diavolo è l’unico che le rimane accanto, che raccoglie le sue confidenze. Perché questo paradosso?
Sì, Lucifero diventa un “diavolo custode”, ma non perde la sua natura, ha un suo tornaconto che si scopre solo verso la fine. Per me è un paradosso necessario perché serve a svelare la parte oscura della dottoressa e la sua perdita di umanità.

È possibile ripararsi dalla sofferenza?
È la domanda fulcro del libro. All’università non insegnano a gestire l’empatia, ognuno trova le proprie strategie. Io ho cercato di anestetizzarmi, di nascondermi dietro un muro spesso. L’effetto collaterale, però, è che mi allontanavo anche da me stessa, non provavo più nulla. La giusta distanza dal male è al confine tra empatia e immedesimazione.

Il Pronto soccorso diventa spazio di una fenomenologia umana variegata. C’è chi viene perché si sente solo, chi sta male davvero e minimizza, chi piange disperato, chi mantiene la dignità. Quanto è importante capire chi si ha davanti?
Fondamentale. I medici di primo intervento hanno un contatto molto intimo con i pazienti, pongono domande personali e dolorose. È un privilegio ma anche una responsabilità. In Pronto soccorso ho imparato a interagire con le persone a prescindere da ruoli e pregiudizi.

Nel libro uno dei varchi per l’inferno è un autogrill. Scelta curiosa…
Per me l’inferno è dove l’anima perde contatto con la realtà e si assottiglia. L’autogrill è iperartificiale, spersonalizzante, con le sue luci al neon e i colori sgargianti. È il punto di passaggio di chi vuole andare altrove. E poi credo che ognuno si costruisca il suo personale inferno quotidiano.

Usa due registri letterari, l’iperrealismo e il fantastico. Come ha trovato la giusta proporzione?
Mi piace inserire elementi fantastici. Credo che alcuni argomenti possano essere spiegati con maggior nitore attraverso metafore surreali.

Il finale è ambiguo. Lo voleva così?
Volevo un finale in cui ognuno potesse leggere ciò che spera per sé stesso.