Un’opera ipnotica firmata da Steven Soderbergh che trasforma lo sguardo in trappola e confessione. In Presence, la macchina da presa diventa spettro e lo spettatore è costretto a condividere colpa, silenzio e memoria. Un film sul desiderio di essere visti, sulla paura di sparire e sull’orrore del non detto. Un’esperienza visiva perturbante e poetica. Dal 24 luglio al cinema con Lucky Red.
Presence. Il fantasma siamo noi, e il cinema è lo specchio rotto della percezione
“Noi non viviamo, talvolta sopravviviamo. E questo è il problema.”
Steven Soderbergh non firma solo un horror. Firma un atto d’amore e disperazione per il cinema come dispositivo voyeuristico, etico, imperdonabile. Presence è un film dove il punto di vista è morto, ma continua a guardare. Dove il vero orrore non è la presenza che infesta… ma il fatto che siamo noi a osservarla senza poter intervenire.
Una visione radicale che lascia il pubblico senza respiro e senza assoluzioni.
Per chi cerca nel cinema horror non solo paura, ma anche consapevolezza.
Il fantasma che impara a guardare
Questo film horror in soggettiva, come ha sottolineato anche Vulture, rivoluziona il concetto stesso di ghost story. Il film si apre sulla pioggia. Gocce sulle finestre. Quel momento sospeso tra fuori e dentro, tra visibile e invisibile. Il primo sguardo dello spettro è incerto, timido. Perché anche i fantasmi, come tutti noi, hanno cominciato da piccoli.
Ed è lì che incontriamo l’agente immobiliare — una Julia Fox sensuale e sfuggente, pigiama palazzo e tacchi alti, come uscita da una pubblicità di case di lusso su YouTube.
Una casa perfetta. Ma vuota. Come sono vuote certe vite ben arredate.
Come raccontano Soderbergh e Koepp in un’intervista a GQ, l’idea è nata da un’esperienza personale di presunta infestazione. Da lì, una domanda vertiginosa: cosa prova un fantasma verso chi vive la sua vecchia casa? E se invece di voler spaventare… volesse solo essere visto?
Approfondimento
Al cinema arriva Presence, curiosità sull’horror di Steven Soderbergh
Gruppo di famiglia in un inferno
I Payne (il cognome suona come Pain, dolore): Rebekah (Lucy Liu), madre glaciale, tutta business e perfezione; Chris (Chris Sullivan), padre sensibile, tenero, sempre un passo indietro; Tyler, figlio adorato, campione di nuoto incapace di affrontare il mare periglioso dell’adolescenza. E Chloe, dolente, fragile, con un secondo nome che è Blue — come malinconia.
È lei l’unica a sentire “qualcosa”. O meglio: qualcuno.
In una cena apparentemente banale, Tyler racconta uno scherzo crudele orchestrato dal suo idolo Ryan contro una ragazza, Simone. La madre ride. Il padre si preoccupa solo che non dica troppe parolacce. Solo Chloe intuisce l’orrore. Come nota Hollywood Reporter, è nelle scene apparentemente normali che il film mostra la sua crudeltà sistemica.
Il film non giudica. Ma nemmeno assolve. Guarda. Come uno specchio d’epoca: opaco, macchiato, ma sincero. Come il quadro di Dorian Gray che non mente.
“Gli specchi antichi sono meglio. Hanno visto più cose.”
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Presence, guarda la clip esclusiva del film di Steven Soderbergh
L’essere è essere-percepito
Il pensiero che tutto domina è quello del filosofo George Berkeley: Esse est percipi, l’essere è essere-percepito. Presence ne è la dimostrazione visiva. Ogni personaggio si dissolve nel momento in cui smette di essere guardato. La soggettiva non è solo un trucco formale: è la filosofia del film, il suo cuore metafisico.
Come scrive SlashFilm, siamo in un cinema della confessione. Dove il dolore viene osservato, ma mai davvero ascoltato.
E in questo, la casa diventa memoria viva: armadi che si chiudono da soli, ventilatori immobili come testimoni muti di ciò che sta per esplodere. Come quelli di Twin Peaks. Come una finestra sul cortile dell’incomunicabilità.
“Due figli. Hai due figli.”
Lo dice Chris a sua moglie. Ma è troppo tardi. Lei ne ama solo uno. Il fantasma lo sa. E guarda.
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Presence, il trailer ufficiale dell’horror di Steven Soderbergh
Musica, silenzi, social
Mentre la famiglia affoga nella sua eleganza sterile, Presence ci sussurra:
“E non ti puoi nascondere dietro gli occhiali da sole.”
Come cantano Ernia, Bresh e Fibra in Parafulmini, i social mostrano una perfezione che è solo packaging. Qui dentro, invece, ognuno è dolente a modo suo. Anime in inverno, coperte da tonalità ocra e brandy visivo.
In sottofondo scorrono Here di Dominic Fike e Dream of You di Puma Blue. Suoni notturni, stanchi, struggenti. Chloe non riesce a elaborare il lutto per Nadia, la sua amica morta. Soffre di athazagorafobia: la paura di essere dimenticati. Forse è questo il vero motore segreto del film horror Presence: la paura di svanire senza lasciare traccia.
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Presence, poster e trailer uffiiciale dell’horror di Steven Soderbergh
Neri come tagli nel tempo
I continui “neri” tra un piano sequenza e l’altro — solo 33 in tutto il film — sono più che stacchi: sono sentenze. Piccoli funerali. Ogni volta che lo schermo si fa buio, è un altro passo verso il nulla. È come se ogni stacco nero fosse una versione perversa del Quadrato nero di Malevic: sentenza visiva, vuoto assoluto, taglio nel tempo.
Approfondimento
Presence, il primo trailer e cosa sapere del film di Steven Soderbergh
Cenere, cielo, silenzio
C’è un momento in cui il dolore non cerca più parole. Solo tregua.
Nel tempo rarefatto di Presence, tutto sembra dirigersi verso un’epifania invisibile, come un ricordo che non vuole essere ricordato.
Il delirio di onnipotenza — l’illusione di poter vedere tutto, capire tutto, possedere tutto — lascia il posto a qualcosa di più fragile. Un desiderio di sparire, forse. Di farsi polvere nell’aria.
“Si finisce a raschiare la verità con le unghie.”
E quando il film si chiude, resta un cielo bianco. Disperatamente bianco.
Come se il paradiso fosse una stanza lasciata in fretta.
O come se, alla fine, anche Dio — o chi per lui — avesse abbassato lo sguardo.
Perché vederlo oggi
Perché viviamo in un’epoca che ci guarda ma non ci vede.
Perché siamo circondati da finestre aperte, stories, sorveglianza, notifiche — eppure ci sentiamo fantasmi nelle nostre stesse vite.
Presence è un film sul non detto, sull’assenza che ci abita, sul desiderio muto di essere visti davvero.
Un horror che non urla, ma sussurra. Che non intrattiene, ma interroga.
Perfetto per chi oggi si sente troppo esposto… eppure invisibile.
O anche solo per chi ha paura di svanire senza lasciare traccia.
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