di
Roberta Scorranese
L’editore: «Pinocchio mi è rimasto addosso, a Sofri ho dedicato la tesi. Mia madre voleva rifiutare Carofiglio»
Antonio Sellerio, il primo libro letto?
«Pinocchio. Da allora mi è rimasto addosso quel senso picaresco del racconto d’avventura. Persiste ancora oggi che ho cinquant’anni».
Ed è alla guida, con sua sorella Olivia, della casa editrice di famiglia.
«La nostra casa era confinante con gli uffici, non c’era distacco tra vita e lavoro».
Palermo, 1969. Sua madre, Elvira Giorgianni investe i 12 milioni di liquidazione da funzionaria regionale e fonda la casa editrice Sellerio assieme a suo padre, Enzo, famoso fotografo.
«E con l’aiuto di Leonardo Sciascia, il primo sostenitore di mia madre. Legatissimi, si diedero del lei fino alla fine».
Com’era sua madre?
«Una che combatteva. Tra le primissime donne a entrare nel cda della Rai, visse la cosiddetta stagione dei “professori”. Ma non si intimidiva, contestava le nomine decise altrove, la non chiarezza».
E Sciascia com’era?
«Voleva essere chiamato “il maestro di Racalmuto”. Non rispondeva mai al telefono e mi insegnò a sparare».
Racconti.
«Lui era l’intellettuale siciliano di riferimento, io ero un bambino e mia madre mi portava con sé quando andava a trovarlo nella sua casa di campagna. Un giorno prese il fucile e insieme colpimmo un barattolo di caffè. Ricordo quel giorno come un battesimo, da allora non ho più sparato».
Gli anni Ottanta in Sicilia.
«C’era un morto ammazzato al giorno, una situazione pesantissima. Mia madre e mio padre, guidando una casa editrice che coltivava un’idea alta e raffinata di letteratura siciliana, adottarono così una forma di resistenza».
Guardavate «La Piovra»?
«No, a casa nostra non si guardava».
A Michele Placido lo ha mai detto?
«Penso che viva benissimo anche senza saperlo».
Elvira e Enzo si separarono nel 1983.
«Rimasero molto legati, continuando ad abitare vicini. La casa editrice, però, si sdoppiò: Elvira alla guida di narrativa e saggistica, a Enzo i libri di arte e fotografia. Mia madre si assunse un carico enorme. Ma aveva affinato l’intuito».
Scoprì Gesualdo Bufalino.
«La incuriosì un suo testo scritto per un libro di fotografie. Lo chiamò: “Bufalino, scommetto che lei ha un romanzo nel cassetto”. Lui rispose: “No signora, ne ho due. Uno glielo mando, l’altro è destinato all’oblio”».
E così nel 1981 uscì «La diceria dell’untore».
«Premio Campiello quello stesso anno».
Nel 1984 arriva Andrea Camilleri.
«Con La strage dimenticata, un libro che non ottenne grande successo, ma mia madre era convinta del suo talento. Andrea aveva un modo tutto suo di raccontare, si entusiasmava per storie apparentemente di poco conto».
E infatti dieci anni dopo ecco «La forma dell’acqua», il primo con Montalbano.
«Prima lenta, poi impetuosa la crescita del successo di quei libri per noi arrivò inattesa. Nel 1998 la classifica dei libri più letti a un certo punto era composta da un solo nome: Camilleri. Oggi i suoi libri hanno superato i venti milioni di copie, è tradotto in oltre trenta Paesi».
Ma come si fa a tradurre Camilleri?
«Bella domanda. Io so solo che in alcuni Paesi di traduttori ne ha due e quando li abbiamo fatti incontrare si sono messi a litigare».
Vi ha traditi anche lui, e non solo con Mondadori.
«Ma ha voluto inserire nel contratto una clausola che comunque protegge Sellerio».
Com’era lui?
«Una volta gli diedero una laurea honoris causa a Dublino. Lo accompagnai. Quando seppe che avevo pagato la sua stanza in albergo si arrabbiò così tanto che non solo volle rimborsarmi, ma pretese anche di pagare la mia camera».
Era puntuale?
«Con lui, cosa più unica che rara se parliamo di scrittori, avveniva che prima consegnava il libro — con puntualità rigorosa — e solo dopo si faceva il contratto. Dei soldi gli importava poco».
Impegno civile?
«Ne Il giro di boa Montalbano è durissimo contro l’irruzione nella scuola Diaz nei cosiddetti fatti di Genova del 2001. Quando si cominciò a lavorare alla sceneggiatura televisiva si era nell’epoca berlusconiana e arrivarono pressioni dalla Rai per smussare quella parte, ma Camilleri fu chiaro: “Se si modifica anche solo una virgola, la Rai si scorda Montalbano”».
Reazioni in casa editrice?
«Arrivarono decine di lettere: “Montalbano appartiene a tutti”, dicevano, “Camilleri non può permettersi di fargli assumere una posizione politica”. Capii allora che quei romanzi erano davvero entrati nelle case di tutta Italia».
Adriano Sofri è un altro pilastro di Sellerio.
«Un amico, una persona di straordinaria cultura e sensibilità. Gli ho dedicato la mia tesi di laurea e sono convinto della sua innocenza».
Per chi ha votato lei l’ultima volta?
«Pd. Ammesso che interessi a qualcuno. Mi spiace, peraltro, essere poco originale».
Un altro «selleriano» importante è Luciano Canfora.
«Uno dei pochi studiosi che unisce una profonda conoscenza alla ricerca della verità, ha un grande coraggio intellettuale».
Alessandro Barbero.
«Sarò sincero: credo che non viva benissimo la sua enorme popolarità».
Barbero riservato!? Come direbbe lui in piemontese «esageruma nen», non esageriamo.
«Eppure, mi creda, penso che la situazione gli sia sfuggita di mano. Lui non cercava la popolarità di per sé, piuttosto è uno che ama divulgare. Poi, certo, è uno che ha il coraggio delle proprie idee e coniuga rigore sabaudo e passione come pochi sanno fare».
Gianrico Carofiglio.
«Esordì con noi. Mia madre all’inizio voleva rifiutarlo: ad accompagnare il suo manoscritto c’erano numerose segnalazioni da Bari, diciamo che era molto sostenuto e lei era piuttosto infastidita da questo. Ma poi, da editrice intelligente, volle leggere il romanzo e alla fine non ebbe dubbi: “È bello, si pubblica”».
È un po’ l’inventore del «legal thriller» italiano.
«L’avvocato Guerrieri è così autentico che solo un magistrato dalla lunga esperienza come lui poteva crearlo».
Carlo Lucarelli.
«Ha inaugurato un nuovo modo di concepire il noir. Con Carta Bianca, nel 1990, raccontava la storia di un funzionario del regime fascista onesto e molto scettico. Lui può permetterselo, perché è un uomo di rigore politico e onestà intellettuale».
Antonio Manzini.
«Un aneddoto. Ho scoperto solo molto tardi che Manzini è stato uno degli allievi prediletti di Camilleri. Eppure, quando ci presentò il primo manoscritto, lo fece per altre vie: non voleva mettere in imbarazzo Andrea e comunque voleva essere valutato per il suo talento. Il suo enorme successo oggi lo ha ripagato».
Hanya Yanagihara.
«Oggi è una delle autrici best seller, ma quando traducemmo il suo Una vita come tante, non avevamo grandi speranze: oltre mille pagine, ai librai ne mandammo un estratto di 200, temendo di spaventarli. Ma poi lei è stata una delle prime “baciate dal successo digitale”, perché una booktoker lo ha rilanciato e da allora ogni suo romanzo è un best seller».
Margaret Doody.
«Dopo il primo libro il suo editore americano si era dimenticato di lei. Con noi ha venduto centomila copie».
Sua sorella Olivia.
«Canta molto bene e presto dovrebbe realizzarsi un bel progetto che venne congelato dalla pandemia, con le canzoni di Montalbano».
Ha visto la serie tv sul «Gattopardo»?
«No, ma ho amato il libro, anche se non mi riconosco in una Sicilia appesantita dalla grandeur».
17 agosto 2025
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