Non è mai troppo tardi per conoscere Lou Reed, monumento del rock mai andato in frantumi, poeta problematico ed eminente del ‘900 americano. Un buono che si scavava fino a rendersi maledetto. E se due libri sono usciti da poco per chi dall’estate reclama letture coinvolgenti, vorrà anche dire che – dodici anni dopo la scomparsa – il suo mondo pieno di incredibili contraddizioni è alla conquista delle generazioni che se l’erano perso e ne percepiscono ora l’originalità, la sincerità spavalda e, con la fragilità combattuta, anche la determinazione che ha accompagnato ogni sua lotta nelle dinamiche della vita: compresa quella contro l’uso smodato di droghe che abbandonò con l’aiuto del Tai-Chi al quale uno dei due titoli è dedicato, a cura della moglie Laurie Anderson.

Ma prima, il classico. Lou era un tipo ironico, al quale capitava di parlare come nei film d’azione. Era difficile non essere aggrediti dal suo fascino e dalle sue verità: nello scambio con Farida Khelfa dell’ultima intervista (da vedere anche su You Tube) gli viene chiesto: «Perché hai fatto musica? Perché hai iniziato a fare musica?». E lui: «Mi piace. O fai quello che ti piace o va a finire che ti arrestano». Era il 21 settembre 2013, Lou sarebbe morto il 27 ottobre successivo. Stava male ma era sempre lucido e sorprendente.

Il colloquio con Khelfa chiude questo volumetto di “best of” intitolato Passeggiando sul lato selvaggio, come il brano più celebre dell’artista. La casa editrice Wudz, una foresta di idee, ha battezzato con voluta banalità la sintesi di un libro che ha ormai 10 anni di vita, uscito negli Usa come The last interview and other conversations. Un classico tra gli adepti al suo culto per la presenza di dialoghi e botte di insulti fra Lou e personaggi memorabili come Lester Bangs, (1975, titolo: «E ora un applauso ai famosi nani della morte o di come lottai fino all’ultimo con Lou Reed rimanendo sveglio»).

Ma prima di Bangs c’è una chicca triste. Appena arrivata in spiaggia, una domenica mattina, Patty Smith riceve un messaggio dalla figlia Jesse: «È morto Lou». Si mette a scrivere seduta sulla sabbia ricordando l’amico al quale deve artisticamente molto. Dice di averlo conosciuto nel 1970 ad un concerto dei Velvet Underground a Kansas City, e di aver ballato sulle loro canzoni. Quando toccherà a lei esibirsi nella stessa sala, Lou si farà vivo: «Si fermava spesso a vedere quel che facevamo. Un uomo complesso, incoraggiava i nostri sforzi poi si girava e mi provocava in modo machiavellico. Cercavo di evitarlo ma come un gatto riappariva all’improvviso e mi disarmava con alcuni versi di Delmore Schwartz sull’amore e il coraggio». Schwartz, l’amore letterario del rocker («la vita è un’avventura audace o niente di niente»).

Incredibile Lou, uscito vivo a 17 anni dalla serie di elettroshock imposti dai genitori per curare una forma di bisessualità della quale li aveva fatti partecipi: quel ricordo rielaborato nutrì la sua arte, in Sally Can Not Dance nel ‘75, una canzone si intitolava Kill Your Sons. Lui già aveva raccontato: «Cosa ti capita dopo? Perdi la memoria e diventi un vegetale. Non puoi leggere perché arrivato a pagina 17 devi tornare di nuovo alla prima».

Ma i dialoghi del libro mostrano che uomo fosse diventato sopravvivendo a quel dirupo. Il confronto con William S. Borroughs è leggendario, una partita a due di ricordi e cattiverie: «Sai Lou, una cosa che critico di Berlin è che non restituisci mai il punto di vista femminile…“Ti prendo a cazzotti, puttana”. “Sei morta, puttana”». E Lou: «Aveva una tresca con uno spacciatore».

Gustose e spesso sorprendenti le interviste. A David Fricke di Rolling Stone, che nell’89 gli chiedeva della schizofrenia nell’ispirazione, quando passava da canzoni pop modaiole come The Ostrich a Heroin che nasceva di notte, rispose che anche Andy Warhol faceva arte commerciale: «Da dove pensano che tirassimo fuori i soldi per tenere tutto in piedi? Nessuno di noi aveva eredità o roba del genere. Eravamo al verde».

Sbottava contro le domande con ironia feroce. Con David Marchese di Spin che lo provoca sulla critica e il giornalismo, Lou si adonta: «Parli di critici musicali e giornalisti. Non voglio affrontare un argomento così stupido con te…».

Nel 1984, la mia prima intervista con Lou a Roma, per l’album Live in Italy registrato al Circo Massimo, Alfredo Saitto, ufficio stampa RCA, mi accompagnò e restò ad ascoltare, io mi innervosii. Mi spiegò poi che spesso Lou maltrattava i giornalisti, ed essendo io l’unica donna a occuparsi di rock, aveva voluto bontà sua proteggermi.

A quel tempo, aveva cominciato ad affrontare il Tai-Chi. Fu affabile e forse paziente, nacque un’amicizia di decenni attraverso tanti concerti per l’Europa. Lo stridio di Metal Machine visto a Venezia nel 2002, gli ultimi fuochi con il maestro Ren GuangYi che gli si esibiva accanto sul palco perché Lou voleva diffondere quella tecnica che lo faceva star bene e gli dava forza. L’ultima volta che lo vidi, a casa mia a cena con Laurie, la cagnetta Lolabelle e il produttore Hal Willner, fece fuori un piatto di gateau di patate indifferente ai rimproveri della moglie («poi parli male dei carboidrati»).

Anche lei era entrata nel mondo del Tai-Chi e dei maestri, e sempre a Laurie si deve l’uscita qualche settimana fa di Il mio Tai-Chi. L’arte dell’allineamento (Jimenez edizioni, traduzione di Natascia Pennacchietti). Sembra un libro dispersivo ma ha una sua omogeneità perché sa far convivere arte creativa e arte marziale, due stelle polari del rocker. Poche volte si leggono tante verità. Si spiegano i maestri illustri, si confidano con Laurie altrettanti illustri colleghi: Iggy Pop, Julian Schnabel regista di Berlin, Wim Wenders, Anohni. Racconti che parlano dell’uomo Lou e dei suoi amici artisti, con il sapore della vita vera, degli acciacchi e delle emozioni.