La notte prima
alle 2:17
tutti i bambini
della classe della Professoressa Gandy
si sono svegliati
sono scesi dal letto
sono andati di sotto
sono usciti dalla porta di casa
finendo nell’oscurità
…E non sono
più tornati
Ero alle scuole medie, credo, quando la mia professoressa di italiano pigliava un testo come quello e ci diceva: accorciate questo paragrafo finché non riuscite a ridurlo all’essenziale ed esprimere esattamente gli stessi concetti, con tutte le informazioni che servono, con meno parole possibili. E allora noi concentratissimi 12enni (sto idealizzando, in realtà non ce ne fregava un cazzo) cominciavamo a segare roba inutile tipo a occhio tutta la seconda metà, che nel momento in cui dici “sono usciti di casa” i passaggi precedenti sono sostanzialmente inferibili. Tranne magari “sono andati di sotto”, che ti fa intuire al volo che siamo nella classica suburbia americana in cui tutti vivono in case a due piani, maledetti. Ma dipende qual è l’obiettivo dell’esercizio.
Con questo non voglio dire che Zach Cregger non abbia il dono della sintesi: voglio solo dire che platealmente non gli interessa. Quel paragrafo accompagna il trailer, accompagna (allungato) l’inizio del film, e sta persino integrale sul poster dove di solito “sintesi” è il primo comandamento: è una dichiarazione di intenti. È lì per dirti “qui creiamo suspense prendendocela abbondantemente comoda, anche a vuoto, prendere o lasciare”.
Alle 8:17 Julia Garner ha preso la borsa, è uscita di casa, è andata a scuola, si è guardata intorno in para dura
È probabilmente colpa della A24, anche se non sono stati i primi né saranno gli ultimi.
Ci siamo abituati a pensare che, quando un autore vuole realizzare un film, è perché ha un messaggio che vuole trasmettere, o un argomento profondo che vuole trattare, e poi inizia a pensare a quale storia e/o metafora risulterebbe adatta per veicolarlo.
Non tutti fanno così, e non mi riferisco agli studios che partono da un marchio o da una “Intellectual Property” (mi fa schiantare dal ridere l’idea di chiamare cose come Skibidi Toilet una “Intellectual Property”), o Corman e i suoi emuli che partono da un titolo e da un poster, o casi del genere.
Penso in tempi recenti a Gareth Evans che parte dall’immagine di un uomo che piange davanti a un pacco di cocaina e ci costruisce sopra Havoc.
E penso a Zach Cregger, che aveva scritto Barbarian partendo dall’idea dell’equivoco all’airbnb e di questa situazione in cui una donna si trova di fronte a un uomo che fa scattare tutti i red flag possibili.
Il punto è: Gareth Evans che vi racconta “sono partito dall’immagine di un uomo che piange davanti a un pacco di cocaina e ho immaginato quale storia si potesse costruire attorno a quella scena” vi fa esclamare “ma pensa te!”, perché il film in sé è abbastanza lineare, non racconta niente di particolarmente sconvolgente, ti comunica obiettivi precisi e li raggiunge.
Zach Cregger che vi racconta che per Barbarian è partito dall’inizio e poi ha seguito il flusso dell’ispirazione ti fa invece esclamare “ah ecco”, perché il film è divertente ma sembra perdere pezzi per strada e arrivare a una conclusione che non collega necessariamente tutto insieme.
Per Weapons, Zach ha dichiarato di essere partito da quella roba che vedete anche sul poster e la mia reazione, dopo aver visto il film, è stata “me l’immaginavo”.
Alle 10:17 Josh Brolin si è alzato, si è rileccato i capelli, ha infilato il gilet, è andato alla riunione scolastica e ha detto “parlateci di Bibbiano”
Insomma, Zach è come quegli scrittori che quando li intervisti fissano il vuoto, gesticolano con la mano verso l’orizzonte, e dichiarano “Io non lo so mai come finiscono le mie storie mentre le scrivo, mi faccio trasportare dai personaggi…”
E Weapons, dopo aver piazzato la premessa, si divide in modo simile a Barbarian in ben sei segmenti dedicati ad altrettanti personaggi che ruotano attorno alla vicenda.
Partendo dalle cose buone: Cregger scrive effettivamente dei bei personaggini. Si diverte a renderli umani, sfaccettati, imperfetti. La professoressa Gandy (Julia Garner) è in una situazione un po’ del cazzo: spariscono di botto tutti i bambini della sua classe tranne uno. Già è piuttosto difficile così, non aiuta se nel suo passato ci sono sospetti di scarsa professionalità, problemi di alcol, tendenze a vittimismo/egocentrismo. Josh Brolin è un genitore in para dura con sensi di colpa da zittire a colpi di complottismo e azione. Alden Ehrenreich è un attore una volta considerato di belle speranze che, da quando ha floppato male con Solo: A Star Wars Story, cerca di rifarsi una carriera nascondendosi fischiettando dietro a un paio di baffi.
Cregger gestisce tutto benissimo: mescola diversi registri dal dramma alla fiaba all’horror all’umorismo macabro, tipo uno Stephen King diretto da John Landis.
E dosa la suspense: sta sempre vicino alla storia, ma la muove di pochissimo, a gesti cronometrati, preferendo divagare per conoscere meglio le figure che abitano nella piccola cittadina.
Alle 15:17 Alden Ehrenreich si è alzato, si è infilato la divisa da pullotto, si è lisciato i baffi, e ha continuato a ripetere fra sé e sé “Non conosco nessun Alden Ehrenreich, io sono Tom Selleck”
Quello che funziona: intrattiene sempre abbastanza da mantenere l’interesse vivo anche quando rallenta.
Quello che non funziona: in un film di due ore e 15, a un certo punto dopo un’ora e 50 ti rendi conto che ne sai ancora quanto all’inizio e davvero poco più, e all’ennesimo stop per ricominciare da capo iniziano sinceramente a girare un pochetto i coglioni. E come in Barbarian, si conclude in un modo che ha senso ma non collega davvero tutto ciò che si è visto, o meglio lo fa soltanto in superficie. Risponde a “ah, ecco cos’è successo”, ma non a tutte le suggestioni che sono state sollevate nel frattempo.
E a questo punto io ho due osservazioni.
La prima: Zach Cregger non è l’unico a lavorare partendo da un inizio e andando avanti a ispirazione piuttosto che partendo dalla fine e ricostruendo la strada sapendo già dove vuole arrivare. Quello che normalmente un autore fa è rileggersi e riaggiustare per trovare un filo conduttore e dare un percorso coerente a quello che è venuto fuori, togliendo le parti che deviano, o – come Tarantino in Pulp Fiction, di cui riprende la narrazione episodica asincrona – sfilacciando del tutto per rendere chiaro che è il viaggio e il ritratto antologico a contare e non la destinazione. Zach, in questo senso, sembra ancora volere la botte piena e il partner ubriaco (tò, vi ho wokeizzato un proverbio per il gusto di dare fastidio): si innamora delle descrizioni che danno ampio respiro e umanità alle scene, si innamora del “si sono svegliati, sono scesi dal letto, sono andati di sotto, sono usciti dalla porta di casa”, ma sa che deve anche mantenere la suspense alta per non perdere lo spettatore, per cui non manca mai di inserire un “finendo nell’oscurità”, lasciando un traguardo in vista come se tutto fosse in funzione di quello. Quella è la parte pericolosa dello scrivere una storia partendo dall’inizio: sembra organica e gestita alla perfezione finché non ti ritrovi senza idee particolarmente illuminanti per una conclusione e finisci un po’ a scopiazzare sbrigativamente Longlegs (ma comunque applausi per aver tirato fuori dal cilindro una spettacolare Amy Madigan). E Zach poi non ha il cuore di rileggersi abbastanza e sacrificare quello che serve per dare davvero un senso di coerenza e compiutezza al tutto. È già il secondo film che gestisce così senza riuscire a nasconderlo: il gioco gli riesce ancora bene, ma il primo beneficiava di un effetto novità che questo non ha, e sono già i primi sintomi del rischio barzelletta.
Alle 12:17 questo mocciosetto si è alzato, ha preso i pennarelli, si è pittato la fazza, ha chiesto a Zach Cregger cosa significasse tutto questo e Zach Cregger gli ha risposto “sta zitto, la risolviamo dopo”. E non è più tornato.
La seconda: credo sia ampiamente sotto gli occhi di tutti che l’unico genere di film per cui riesci a farti dare un budget importante per fare qualcosa di originale sono gli horror. Sono sempre più disilluso sul fatto che un Ryan Coogler abbia sempre sognato di fare un film di vampiri come metafora dell’appropriazione culturale, e non che ce li abbia messi solo perché era l’unico modo per farsi dare 90 milioni di budget. E guardate Ari Aster: si fa notare con Hereditary, conferma con Midsommar, e appena può godere di abbastanza credito da fare davvero quello che gli pare espande subito i suoi orizzonti portando la sua ansia su altri territori. Jordan Peele è a tanto così dal fare la stessa cosa, Coralie Fargeat probabilmente pure, John Krasinski l’ha già fatto, e mi sento di dire che Zach Cregger faccia parte della stessa categoria. L’horror è l’unico genere che è riuscito a uscire dalle solite formulette – in questo momento storico non sei più obbligato a parlare di esorcismi e fantasmi o a fare un remake/reboot a tutti i costi, anche se ancora si fanno – e a fare soldi non solo con film economici ma anche con spunti accattivanti che danno agganci sufficienti al marketing (se i bambini di Weapons non corressero senza motivo con l’artrite alle braccia, cosa metteresti nel poster senza spoilerare?) ma lasciano abbastanza spazio per esprimere talenti dotati di personalità.
La strada per il graduale ritorno ai film originali, se mai avranno davvero un nuovo sussulto di orgoglio, passa da qua: un genere che si affronta già in partenza con le aspettative di essere messi a disagio, e che in quanto tale ha carta bianca per sfidare le regole e sorprendere. Il primo passo con cui guadagnarsi la fiducia del pubblico e poi fare davvero ciò che si vuole. Al botteghino, Weapons sta funzionando alla grande: a me non ha convinto del tutto, ma che a Zach piaccia comunque anche l’horror è fuori da ogni dubbio. Me lo faccio andare benone.
Poster-quote:
“Alle 14:17 mi sono seduto alla scrivania, ho acceso il computer, ho scritto la recensione di Weapons, e ho divagato. E sono finito nell’oscurità.”
Nanni Cobretti, i400calci.com