di
Daniele Labanti

Il campione di San Giovanni in Persiceto ufficializza l’addio al basket: «Non è facile ma è il momento giusto, a questo sport ho dato tutto me stesso»

Nessuno come lui. Tre scudetti a Basket City, due con la Virtus e uno con la Fortitudo, un’Eurocup e soprattutto la lunghissima carriera Nba coronata dal titolo vinto a San Antonio nel 2014, annata impreziosita anche dal successo nella gara del tiro da tre punti all’All Star Game. 

Primo e unico italiano a vincere nella Nba, e non per caso: perché quella di Marco Belinelli, che ha annunciato il ritiro dalla pallacanestro, è una storia d’amore con il gioco, un percorso sentito e vissuto, fin da quando — ragazzino — diceva a tutti gli amici di San Giovanni in Persiceto che lui, un giorno, avrebbe giocato in America. «Non c’è niente di così bello. Fare canestro» attacca l’emozionante clip d’addio al basket. Che continua: «Ci ho messo il cuore. Ogni briciolo di me stesso»



















































Marco Belinelli: gli incredibili numeri della sua carriera

Dopo aver snocciolato i successi potremmo perderci nei numeri di un atleta che ha disputato 1.636 partite ufficiali segnando oltre 17.000 punti, di cui quasi 9.000 nella Nba, riuscendo a vincere con la Virtus e con la Fortitudo, diventando il quarto marcatore di sempre della Nazionale italiana con 2.258 punti segnati. Ma sarebbe fargli un torto, nonostante le cifre siano straordinarie. 

Perché non spiegano l’essenza più intima di Belinelli, un giocatore globale nato in un contesto locale, dove ha messo radici senza mai rinnegarle e anzi alimentandole, anno dopo anno, conservando l’ambizione e la determinazione che ne avevano caratterizzato l’ascesa. Belinelli è sempre stato a San Giovanni, a Bologna, anche quando era un campione Nba. Le lacrime a Palazzo d’Accursio nel giorno della consegna del Nettuno d’oro, nel 2014, la successiva festa in piazza nel suo paese, dov’era accorsa una folla di migliaia di persone, sono solo due piccoli esempi per tratteggiare ciò che Beli ha seminato durante la sua lunga carriera, anche fuori dal campo.

Campione a Basket city con entrambe le bolognesi

Una carriera da professionista inizia nel 2002, a soli 16 anni, quando Boscia Tanjevic allenando una Virtus disastrata decise che fosse giunto il momento di lanciare quel ragazzino così ricco di talento che Marco Sanguettoli stava crescendo nel settore giovanile. Al mercoledì era in campo in Eurolega contro il Real Madrid, tre giorni dopo replicava in un campetto di provincia con l’under 17. 

Il coronamento del sogno negli Usa e con la famiglia

«Il più grande pregio di Marco è essere rimasto sempre sé stesso» ripete Sanguettoli, che stravedeva per il suo pupillo fin dalla prima apparizione in palestra. E in quel «sé stesso» c’è il cuore della sua carriera, che parte da lontano, dal legame fortissimo con la famiglia, i fratelli Enrico e Umberto sempre vicini, il rapporto con Martina, anch’esso ancestrale e coronato dalla nascita di Nina Sophie e Deva Vittoria, la cultura del lavoro, del miglioramento costante, la scelta della via difficile che passava dagli allenamenti duri e dalla conquista di un posto in una squadra da titolo, rifuggendo i facili guadagni in Europa o in franchigie senza ambizioni. 

I compagni di quei trionfi, anche in Texas, forse saranno presto a Bologna per un’ultima partita. Per celebrare la leggenda. «Alla fine ho vinto» è la frase scolpita nella pietra dopo aver conquistato l’anello, che sulla bilancia dei successi, volessimo stilare una classifica dei più grandi giocatori italiani di sempre, pesa più di molto altro, delle spinte mediatiche, degli sponsor e di tutto ciò che rappresenta solo contorno.

«Non è facile dire addio ma è il momento»

Marco Belinelli è tutto lì, in quelle lacrime e in quel sudore, nella ricerca della perfezione tecnica per raggiungere l’eden sognato da bambino, quando con i fratelli guardava vhs e dvd dei grandi della Nba imitandone i gesti. Ci voleva gran talento per riprodurre le movenze di Michael Jordan e Kobe Bryant, fra i tanti i due ai quali ha carpito di più. Gustave Le Bon sosteneva che «non si è padroni dei propri desideri, lo si è della propria volontà». 

Marco a Bologna ha ispirato e donato lustro e successi, dopo il primo tricolore conquistato con la Effe è tornato alla Virtus nel 2020, in pieno Covid, convinto che avrebbe potuto vincere ancora. E, soprattutto, sicuro che la sua vita, a palloni fermi, sarebbe continuata a casa. Nella sua San Giovanni, dove tutto è cominciato, nel paese che ha dato all’Italia un campione Nba. Ora che il sipario cala sul giocatore, quel numero 3 s’illumina più forte. «Ai più giovani, lascio un sogno. Fate in modo che ne valga la pena». Un inchino, Beli.


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18 agosto 2025 ( modifica il 18 agosto 2025 | 18:41)