di
Barbara Visentin
Carlo Conti, il direttore artistico di Sanremo: «Non posso dimenticare i suoi abbraccioni paterni. Il mio Festival è baudiano: l’anno prossimo lo ricorderò all’Ariston»
Chi lavora in tv, per forza di cose, ha un po’ di Pippo Baudo nel dna, dice Carlo Conti: «Era il nostro faro, e per me lo è stato fin da ragazzetto, quando cominciavo a fare le serate in Toscana».
Il vostro primo incontro?
«All’inizio degli anni 90 conducevo Big!, per la tv dei ragazzi. Una volta venni a Roma e lo andai a trovare in camerino, alla Dear (gli studi oggi intitolati a Fabrizio Frizzi, ndr). “Stai andando bene”, mi disse. Non era uno che faceva tanti complimenti, bastava una pacca sulla spalla e voleva dire “Vai avanti così, impegnati, studia”. Poi, quella volta, si doveva preparare per il suo programma: “Io mi vesto, eh”, avvertì. E me lo ritrovai in mutande, con quei suoi boxer, che si cambiava dandomi fin dall’inizio una confidenza che ti faceva sentire suo amico e immodestamente collega».
Poi fu spesso paragonato a lui.
«Gli amici mi chiamavano Pippuzzo per prendermi in giro, ma per me era un onore, figuriamoci conoscerlo, addirittura diventargli amico e frequentarlo. Quando arrivai anche io alla Dear chiesi proprio di aver quel camerino, da quanto era importante».
Era sempre un complimento, anche quando l’accezione non era del tutto positiva?
«Anche quando i primi critici scrivevano che “baudeggiavo” era un complimento. Non può che essere così. Chi usava il termine in modo non positivo sbagliava perché è come dire a un calciatore che è simile a Maradona. Baudo è stato il primo che ha trasformato il presentatore in conduttore: sono mestieri diversi, e lui era un regista in scena che dettava i tempi, stava al centro, osservava. Tutti abbiamo cercato di imparare da lui e poi proseguire col nostro stile».
Avete anche condiviso delle trasmissioni.
«Mi scelse come uno dei conduttori di Luna Park e poi di Il Castello. Si era inventato l’idea di alternare i conduttori, uno per sera. Per me fu come ricevere mille medaglie».
Vi dava dei consigli?
«Lui inventava i programmi, ma poi ognuno se li personalizzava. Pippo non entrava nel merito, anzi gli piaceva che ogni serata avesse un sapore diverso e ogni conduttore ci mettesse la sua cifra. Ci lasciava liberi».
Incuteva timore?
«Quando arrivava sentivi la sua presenza, l’imponenza e l’altezza. Ma era rispetto del valore della persona, non timore di quello che dà ordini o fa il comandante. Se diceva “quella luce è sbagliata”, aveva ragione. Se diceva “quel vestito luccica troppo”, era così. Perché era uno che vedeva tutto e controllava i dettagli. Negli studi era sempre benvoluto dalle maestranze. Era il professionista che dava le indicazioni giuste e quindi veniva rispettato».
Nemmeno su Sanremo le diede qualche consiglio?
«No, nessun consiglio. Ma nell’ultima edizione, quando ho detto che definivo il mio Festival “baudiano”, cioè fatto come Pippo ci ha insegnato, lui è rimasto contento. Ci siamo sentiti, ne era felice. Ma tutti noi al Festival citiamo Pippo perché lo facciamo come l’ha inventato lui: è stato lui a farlo diventare un evento, a inventare il Dopofestival, a creare anche le polemiche, volendo».
L’anno prossimo ha in mente un ricordo speciale al Festival?
«È presto per dirlo, ma sarà il minimo. È sempre stato ricordato da chiunque, figuriamoci questa volta, nel primo Festival senza Pippo».
Quando vi siete sentiti per l’ultima volta?
«L’anno scorso mi ha fatto un regalo, collegandosi quando ho condotto la serata speciale del Rischiatutto 70. Ci siamo sentiti quest’anno a marzo e poi ho cominciato ad avere dei dubbi quando l’ho chiamato e gli ho mandato un messaggio a giugno per il suo compleanno. Non mi ha risposto, ho sentito la sua fedelissima assistente Dina, e ho capito che la salute non era delle migliori».
Se ripensa a lui che cosa le viene in mente a bruciapelo?
«I suoi abbracci. Ti prendeva in questi abbraccioni quasi paterni, con un misto di affetto e forza, come ce l’hanno i buoni padri di famiglia».
18 agosto 2025 ( modifica il 18 agosto 2025 | 17:07)
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