Dopo innumerevoli traversie produttive, a sei anni da Intermezzo, il regista franco-tunisino torna a raccontare Amin, Tony, Ophélie e tutti gli altri amici di Séte. E conclude (forse) una trilogia unica e irripetibile schivando polemiche e mutando umori e punti di vista. La recensione di Mektoub, My Love: Canto Due di Federico Gironi.

Come accade anche nella vita nei casi più fortunati, tornare a Sète, nella Sète reimmaginata da Abdellatif Kechiche, ha qualcosa di magico. Non ci tornavi da un po’ di anni, i ricordi dei volti e delle vicende e degli intrecci erano un po’ sbiaditi dal tempo, ma l’intensità di quello che lì avevi vissuto te la ricordi benissimo. Poi ci torni, e quindi inizia Mektoub, My Love: Canto Due, e quell’intensità ti investe di nuovo, e a ogni incontro che fai, a ogni personaggio che incontri di nuovo, la nebbia del tempo svanisce e ti sembra quasi che non sia passato nemmeno un giorno, dall’ultima volta che vi siete visti. Tutto è come lo ricordavi, tutti sono ancora lì: Amin, Toni, Ophélie, Camélia, Céline, il fantastico zio Kamel. Tutto è lì come lo avevi lasciato: le relazioni, i problemi, le speranze, i desideri. Il talento spaventoso di un autore unico al mondo.

Ora, non è che non sia cambiato proprio nulla. È cambiato il momento, l’atmosfera, sono cambiati gli umori. E è diventata chiara, più di quanto non fosse in precedenza, la suddivisione in capitoli di questa storia potenzialmente infinita, di questa storia che è letteratura e cinema e vita, intrecciate in maniera sbalorditiva e inestricabile.

Canto Uno, con quell’esplosione della vitalità, dell’erotismo, della passione, del desiderio della giovinezza, era l’eccitazione; Intermezzo (alla luce di quel che abbiamo visto ora, che titolo appropriato!), con quella notte interminabile in discoteca e quella famosa scena di sesso nel bagno, era il plateau; Canto Due, che potrebbe sorprendere alcuni per la sua morigeratezza in termini di esposizione dei corpi, di nudità e di sesso, e che potrebbe portare questi alcuni, erroneamente, a pensare che Kechiche abbia voluto censurarsi per via delle troppe polemiche del passato, con quel suo ragionare apparentemente d’altro, è la risoluzione.

Canto Due è chiaramente un film post-orgasmico, un film in perenne hangover, un film che racconta (anche) quella meravigliosa fase lenta e vagamente decadente che è la fine dell’estate (sì, hanno tutti o quasi citato i Righeira, e hanno ragione), lì dove la fine dell’estate coincide, forse, con la fine di una stagione della vita, della giovinezza, della spensieratezza, dell’irresponsabilità, e all’orizzonte si intravedono (appena) le nubi della responsabilità, delle conseguenze, del prezzo da pagare per le scelte che si fanno o non si fanno (se fossi uno di quelli che non ha paura dello stigma dei critici veri, dei critici seri, di quelli che giudicano alteri e severi, bestemmierei dicendo che, da certi punti di vista, Canto Due è un po’ il Sapore di mare di Kechiche. Ma siccome sono pavido non lo dico. Oddio, oppure l’ho detto?).

Attenzione però. Perché Kechiche sa le cose, la gioventù, la vita e il cinema meglio di tutti noi, e non è mica così ingenuo da pensare e raccontare che le cose siano così semplici, così schematiche, così meccaniche. E allora, come già per i due film che l’hanno preceduto, Canto Due è un film comunque intriso di desiderio, perché è il desiderio quello che fa girare il mondo, e vivere la vita. Un desiderio che, qui, è ancora più struggente e potente, proprio perché slegato (almeno in parte) dalla dimensione erotica più sfacciata, dalla pulsione scopica più evidente. È un desiderio – non solo sessuale, ovviamente – che si esprime sottotraccia, ma con una carica elettrica nervosa e malinconica, fortissima e evidente, attraverso sguardi fugaci, piccoli gesti, incertezze, inciampi, slanci improvvisi, e che regala a Canto due una tensione nuova e affascinante.

A incarnare la linea d’ombra di Canto Due, e la complessità e le ambiguità del desiderio, la nuova entrata rappresentata dalla coppia Jack & Jessica, produttore americano e giovane moglie diva vorace e depressa, che entrano nella vita dei nostri amici e inizieranno un rischioso gioco di seduzione con Tony e Amin, promettendo una carriera, una vita a Los Angeles, un film hollywoodiano basato sul copione di Amin. Amin, che in questo terzo film diventa ancora più protagonista e sicuramente più attivo, magari perfino suo malgrado: non è più solo lo sguardo che registra e racconta, ma personaggio più complesso, messo di fronte alla complessità ancora maggiore, sovrastante, delle scelte da compiere: accompagnare Ophélie a Parigi per abortire il figlio di Tony, accettare la proposta del produttore americano, cedere alle insistenze di Céline.

In Canto Due Kechiche mette Amin alle strette, all’angolo, alla prova. È qui, allora, non certo nella maggiore pudicizia, che poi è tutta relativa, che l’autore mette la sua biografia più recente, le polemiche, le traversie produttive, tutto il resto. Nel modo in mette cui in crisi quell’Amin che è da sempre il suo alter ego, in cui lo pone di fronte alle difficoltà, senza possibilità di fuga.

Chissà se senza tutto il vissuto di Kechiche, Amin avrebbe avuto lo stesso mektoub, lo stesso destino. Non lo sappiamo, come non sappiamo se e come uscirà da quest’impasse, e cosa accadrà a tutti gli altri, e se Kechiche tornerà di nuovo a suonare alla nostra porta, per portarci ancora a Sète, a quell’estate, a quella giovinezza, o da qualsiasi altra parte; chissà se tornerà rapire il nostro cuore e i nostri occhi come solo lui sa fare.

Speriamo di sì.