Il nostro pianeta natale ha sempre avuto un ruolo importante nella saga di Alien: è qui che Ellen Ripley ha trascorso gran parte della sua vita; la Terra ospita inoltre la sede della Weyland-Yutani Corporation ed è il luogo che, a seconda dei casi, camionisti spaziali, marine e mercenari hanno dovuto proteggere ripetutamente dall’infestazione degli xenomorfi. Eppure, nonostante la sua importanza nella trama, non è mai stata al centro dell’ambientazione in un film di Alien, e nella linea temporale del franchise abbiamo avuto giusto un assaggio di come appare. Le cose sono cambiate con Alien: Pianeta Terra, la serie TV disponibile su Disney+ che si svolge quasi interamente sulla superficie del pianeta.

Oltre i cliché

I paesaggi desolati e quasi inospitali di pianeti come LV-426 e la colonia Jackson’s Star di Alien: Romulus potrebbero facilmente indurre a credere che l’intera galassia sia un luogo ostile e miserabile. Alien: Pianeta Terra sfata questa idea in pochi secondi, laddove la sua visione della Terra nell’anno 2120 è incredibilmente riconoscibile. Certo, ci sono alcune megatorri giganti in più che dominano lo skyline, ma questo mondo è chiaramente molto simile al nostro, e non ancora precipitato nella distopia cyberpunk della Los Angeles perennemente piovosa di Blade Runner. Tuttavia, era importante stabilire che questa versione della Terra non è quella in cui viviamo oggi. “Uno dei motivi per cui siamo andati a girare a Bangkok è che ha uno skyline che la maggior parte del pubblico occidentale non conosce”, spiega Noah Hawley, showrunner e regista della produzione. “Ma la ragione per la quale abbiamo ambientato la serie lì, e in quel periodo storico, è legato a questioni di riconoscibilità e accessibilità. Se ci si sposta in una realtà distopica, la gente pensa: ‘Beh, quella non è la mia realtà’. Non so perché il futuro sia sempre mostrato in maniera brutalista£

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Le splendenti torri di Prodigy City.

Ma non sono solo gli edifici della serie a non apparire brutalisti; Hawley ha evitato la rappresentazione dura e severa delle corporazioni che il franchise ha tradizionalmente utilizzato, optando invece per qualcosa che comunicasse ricchezza e benessere. “Quello che Ridley Scott e James Cameron dovevano affrontare con la Weyland-Yutani Corporation era una burocrazia capitalista senza nome né volto”, osserva. “Ma il capitalismo oggi non è più così. Il capitalismo è fatto di miliardari e celebrità, giusto? Si tratta letteralmente di individui che usano il loro denaro e i loro capricci per controllare la propria parte di mondo”. “In un certo senso, Alien riflette il decennio in cui è stato realizzato”, spiega. “Quindi, penso che il capitalismo della serie debba riflettere il momento che stiamo vivendo. Se fosse una distopia alla 1984, la guarderemmo e diremmo: ‘Beh, quello non è il mio mondo. Non riesco proprio a immedesimarmi’. Non sarebbe una brutta scelta in assoluto, è solo che non ci sentiremmo coinvolti”. La visione di Hawley era quella di sviluppare un mondo che non aderisse all’idea popolare di distopia; certo, ci sarebbero dovuti essere alcuni concetti davvero agghiaccianti alla base di questo futuro indesiderabile: lo showrunner spiega come, all’interno dei suoi nuovi contributi al canone, ci siano tre livelli di persone: Humanity Prime, Humanity Plus e Humanity Minus. Quelli della categoria Minus, come il personaggio di Hermit, interpretato da Alex Lawther, sarebbero così poveri da essere costretti a vivere in stanze singole insieme ad altre famiglie, con a malapena un telone per guadagnare un po’ di privacy. Ma era importante che questo mondo sostenesse personaggi umani e credibili, piuttosto che gusci schiacciati sotto il tallone del capitalismo; la chiave era l’equilibrio.

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“Ci sono molti riferimenti al cinema d’animazione, e uno di questi è Wall-E”, rivela Hawley. “Wall-E è solo, ma non è triste: ha Hello Dolly, il suo scarafaggio. Va avanti, svolge la sua funzione, torna a casa alla fine della giornata e possiede una sua dimensione. Similmente Hermit è chiaramente in difficoltà, ma c’è una nota di positività di fondo”. La Terra su cui vive il giovane è governata da cinque corporazioni: Weyland-Yutani, Prodigy, Lynch, Dynamic e Threshold. Dopo anni passati a concentrarsi esclusivamente su Weyland-Yutani, la serie ora rivolge la sua attenzione alla Prodigy. Questo cambiamento ha richiesto a Hawley e al suo team di ideare un’estetica completamente nuova per la tecnologia, le armi e gli spazi della corporazione. “Ci è voluto un po’ di tempo e abbiamo attraversato diverse evoluzioni nel corso dei cinque anni necessari per realizzare la serie”, spiega. “È una cosa complessa perché l’unica estetica nota di Alien è quella della Weyland-Yutani. Prodigy è un’azienda diversa e non avrà lo stesso aspetto, ma non può essere nemmeno troppo differente. Non può essere un negozio Apple. L’estetica della Prodigy è più simile a Star Trek, che rappresenta un taglio di fantascienza diverso”.

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Il quartier generale della prodigy, a filo d’acqua.

Sebbene le minacce della serie siano evidenti, c’è un altro sottile “distruttore di mondi” che si nasconde dietro le quinte: il cambiamento climatico. La Terra di Alien: Pianeta Terra è più calda di quella attuale e il livello degli oceani è aumentato; l’architettura del 2120 si adatta a questa situazione, in parte perché “la tecnologia odia l’acqua”. Se a questo aggiungiamo il punto focale della serie, ovvero un ragazzo geniale nel ruolo di amministratore delegato, è naturale che le scene ambientate nel quartier generale della Prodigy, Neverland, abbiano un’atmosfera molto diversa da quelle precedenti. “Ci siamo allontanati dall’atmosfera da sala macchine di un camion”, dice Hawley. “Ora abbiamo a che fare con un miliardario, ma anche così i terrestri stanno combattendo contro la muffa e le infiltrazioni d’acqua. Alcuni personaggi che abbiamo introdotto, gli addetti alla pulizia di funghi e muffe, servono tutti a richiamare l’identità di Alien. Dove qualcosa gocciola sempre“. Il nome “Neverland” rimanda all’isola di Peter Pan: non era sufficiente che la Prodigy avesse un aspetto diverso da quello della Weyland-Yutani, ma doveva proprio muoversi in modo diverso, desiderare cose diverse. Quindi, se l’obiettivo terrificante della Weyland-Yutani è quello di ottenere il controllo della cosa più letale che esista, qual è lo scopo altrettanto inquietante della Prodigy? Beh, quello che ogni miliardario desidera: il segreto dell’eternità. Ma sotto questo desiderio primario c’è un legame più profondo tra la Prodigy e il personaggio portato al successo dal cartone animato Disney.

L’isola che non c’è

“C’è questo tema di bambini in corpi da adulti”, dice Hawley, riferendosi ai nuovi ibridi della serie: menti umane installate in corpi sintetici. “Perché se si parla di umanità e se meritiamo di sopravvivere… chi è più umano di un bambino? E così abbiamo a che fare con dei bambini mai cresciuti, e in questo modo entra in gioco l’analogia con Peter Pan. Senza contare che l’amministratore delegato della società sia lui stesso un bambino prodigio, un genio, e si consideri una specia di Peter Pan, appunto“. Trasferire la storia di Alien su un pianeta che la serie non aveva mai veramente esplorato prima significava che gran parte di essa sarebbe inevitabilmente sembrata nuova e fresca. Ma Alien: Pianeta Terra è comunque l’ultimo capitolo di un franchise con alle spalle un’eredità di 46 anni; deve comunque sembrare familiare. Per Hawley, c’erano un paio di punti di riferimento principali: il primo, ovviamente, era lo xenomorfo stesso, una delle creature più riconoscibili di tutto il cinema. Poi c’era il linguaggio visivo di Alien: le dissolvenze incrociate oniriche, la grana cinematografica anni ’70; elementi come il display di un computer riflesso nella visiera di un casco. Tutto questo, e molto altro, si può trovare in un episodio di Alien: Pianeta Terra.

“Quando si traduce qualcosa dal cinema alla televisione, è diverso dalla semplice realizzazione di un sequel”, spiega Hawley. “Bisogna convincere il pubblico che si è compresa l’opera originale, e qui lo si comunica utilizzando letteralmente alcune delle ambientazioni del primo film… Quindi abbiamo girato con lenti anamorfiche, zoom che danno un tocco molto anni Settanta; c’erano sia una sfida dal punto di vista del design, sia dal punto di vista cinematografico: è stato parte del divertimento”. Anche nella nuova versione ci si può aspettare di trovare molti degli stessi effetti sonori o elementi visivi che erano presenti nel film originale; i computer continuano a emettere quel “tonfo” quando caricano completamente un’applicazione, mentre L’interfaccia visiva di MOTHER genera ancora lo stesso rumore metallico mentre vengono digitati i comandi col classico verde tremolante. Si va anche oltre l’universo narrativo, con i titoli di coda di ogni puntata che riproducono i caratteri morbidi del classico di Ridley Scott del 1979. Hawley spiega che tutto questo è intenzionale, non solo per motivi di autenticità, ma anche per comunicare le intenzioni della serie. Come Prometheus, questo è un prequel del film originale, tuttavia non c’è alcun tentativo di modernizzare la tecnologia per adattarla alla nostra concezione moderna di futuristico.

“Abbiamo dovuto far capire al pubblico che ci saremmo mossi in modo diverso, afferma Hawley. “Ridley Scott è arrivato e l’ha fatto; è così che desiderava ‘giocare’ con quel materiale per la seconda volta. Questo è il mondo in cui viviamo. Viviamo nel retrofuturismo dei primi due film”. Sebbene la serie sia indubbiamente ambientata nell’universo di Alien, la forte attenzione, da parte della trama, alla creazione e all’utilizzo di sintetici, cyborg e ibridi implica la presenza di lunghe sezioni dall’atmosfera in qualche modo diversa rispetto alla tradizione. Attraverso sottili aggiustamenti a livello di ritmo, regia e inquadrature, è quasi come se a volte scivolasse in Blade Runner. “Penso che sia inevitabile”, ammette Hawley. “Non credo che Ridley Scott possa sfuggire al fatto di aver realizzato due film che si completano a vicenda passando dai mostri alle creature sintetiche. A livello di estetica, si potrebbe facilmente pensare che la Terra di Blade Runner sia la stessa di Alien: gli echi sono inevitabili. Ogni volta che si approfondisce l’intelligenza artificiale, si finisce per ritrovarsi in quel contesto”. Dopo 46 anni di colonie sterili, prigioni squallide e astronavi industriali, Alien: Pianeta Terra permette finalmente uno sguardo approfondito sul pianeta per il quale Ellen Ripley ha combattuto così duramente; e grazie al mondo straordinario creato da Noah Hawley e dal suo team, è valsa sicuramente la pena aspettare.