Un momento delle proteste di domenica in Israele: in piazza e per le strade è sceso un cittadino ebreo su quattro

Un momento delle proteste di domenica in Israele: in piazza e per le strade è sceso un cittadino ebreo su quattro – Ansa

Trecentomila persone si sono ritrovate a Tel Aviv, due milioni e mezzo in tutto il Paese: un quarto della popolazione israeliana ha chiesto domenica in piazza la fine della guerra e la liberazione degli ostaggi. «Simpatizzanti di Hamas» li ha definiti ieri Netanyahu in una breve dichiarazione, poco prima che i media anticipassero i tempi dell’occupazione della Striscia, e l’accettazione del piano di tregua egiziano-qatarino da parte del movimento islamista. La proposta prevedrebbe una tregua di sessanta giorni, la liberazione in due momenti degli ostaggi e il rilascio di un numero imprecisato di detenuti palestinesi. «Ora la palla è nel campo israeliano», hanno fatto sapere fonti vicine alla trattativa.

Sabato l’ufficio di Netanyahu aveva ribadito che il rilascio completo dei prigionieri nella Striscia e il disarmo della milizia sono gli elementi imprescindibili di un possibile accordo. Al termine di un lungo e complesso dibattito fra esecutivo e forze armate, Eylan Zamir, il capo di Stato maggiore dell’Esercito, ha approvato il piano per occupare Gaza City. Quasi due mesi per evacuare gli almeno settecentomila profughi, e poi l’Idf procederebbe a invadere la città e alcuni campi con l’intento di stanare e annichilire Hamas. Una «condanna a morte per gli ostaggi», per i familiari come per molti analisti.

Domenica sera, in Hostages square, la moltitudine compatta sembrava poter crescere solo nelle frange che si allungano intorno alla piazza. Si è aperta invece a ricevere il corteo guidato dai genitori e dai familiari degli ostaggi. Il tripudio di applausi e cori veniva ripreso dalle telecamere e proiettato sui quattro grandi schermi che accompagnano la piazza, «riportateli a casa, adesso», si cantava. «Il mio cuore è dilaniato dall’assenza di mio figlio Matan. Matan, io e un’intera nazione stiamo facendo tutto ciò che è possibile per te, per tutti i rapiti», ha scandito dal palco Einav Zangauker, una delle figure più importati nel forum che raccoglie e organizza le famiglie degli ostaggi e degli scomparsi. I fischi hanno accompagnato costantemente il nome del primo ministro Benjamin Netanyahu, un’ovazione flebile, interdetta, il video in cui si chiede al presidente americano Trump di mettere fine alla guerra di «Bibi».

Già nel pomeriggio le persone erano migliaia, ascoltavano il padre dell’ostaggio Alon Ohel chiedere con consapevole velleità un referendum, si raccoglievano in piccoli gruppi di canto, ossequiavano gli oggetti, le simbologie che riempiono lo spazio rituale della sacralità pubblica. «Siamo qui per dare conforto alle famiglie, non pensiamo che il governo ci ascolti», spiegava Bar, la cui famiglia si è miracolosamente salvata il 7 ottobre, chiudendosi nelle camere di sicurezza del kibbutz di Nir Oz. Per lei la liberazione degli ostaggi è l’unica necessità, non la fine della guerra. Nei tunnel «vive la jihad, e la popolazione, per necessità, è complice». Alle pressioni che già venivano esercitate sul regime islamista si sono aggiunte nella serata di lunedì quelle di Trump, secondo il quale «gli ostaggi saranno liberati solo quando Hamas verrà distrutto». In perfetta linea quindi con il governo di Tel Aviv, che lo scopo sia ottenere migliori condizioni nelle trattative, o il loro fallimento e il proseguo del piano di occupazione. «Hamas ora discute l’accordo solo perché ha timore che intendiamo seriamente prendere Gaza city. La conquista della città porterà alla loro sconfitta», ha affermato il ministro della Difesa israeliano Katz. «Ho sentito le notizie dei media, e da questo emerge solo una cosa: Hamas è sotto un’enorme pressione» ha dichiarato poco più tardi anche Netanyahu.

La pietra tombale sulle possibilità di una tregua è arrivata per voce di un funzionario israeliano, che in tarda serata ha sottolineato come la proposta di Hamas si basi sulla stragrande maggioranza delle richieste avanzate il mese scorso, le stesse che hanno portato al fallimento dei colloqui di Doha. L’Hostages and Missing Families Forum ha rapidamente reagito agli sviluppi diplomatici chiedendo al proprio popolo, per domenica prossima, un altro sciopero.