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Paolo Calissano aveva un fratello, Roberto. Più piccolo di dieci mesi e mezzo. Un fratello con cui è cresciuto, con cui ha condiviso gioie e dolori. Fino alla sua scomparsa avvenuta il 29 dicembre 2021 a 54 anni. Morto per colpa di un mix di antidepressivi. «Non fu uno sbaglio – racconta al Corriere della Sera – cercava la morte, non ha retto, non voleva più vivere. Ha scelto quello anziché buttarsi sotto a un treno». 


APPROFONDIMENTI

Due fratelli diversi. «Secondo il metodo Montessori – racconta ancora Roberto – potevamo scrivere sui muri. Io disegnavo elicotteri, lui qualche donnina. Da adolescenti, io appendevo foto di motociclette. Paolo quelle delle sue fidanzatine. Era un ragazzino molto precoce». Decisamente precoce. «Dopo la separazione, vivevamo con nostra madre – ricorda ancora il fratello allo storico quotidiano di Via Solferino – Quando partiva con il nuovo compagno, ci affidava alle figlie di qualche sua amica, che avevano 18, 19 anni.

Noi 14 e 15. Capirai. Paolo tesseva la sua tela di seduttore e riusciva a farle capitolare. Le portava sul lettone di mamma. Per comprare il mio silenzio mi regalava qualche reggiseno». Ma non solo: «Mi apriva la porta con l’accappatoio aperto, davanti alla mia fidanzata. E rideva…».Il rapporto con il fratello

Uniti, mai gelosi uno dell’altro. «Io ero orgoglioso che fosse un gran figo. Quando prenotavo un ristorante, scandivo bene il cognome. “Calissano come l’attore?”, chiedevano. “Sì, è mio fratello”. Specie nel periodo di Vivere mi gasavo, come fossi io quello famoso».

Suo padre Vittorio non ha mai creduto in lui. Lo voleva a lavorare in azienda. Ma Paolo fece di testa sua. E «la disapprovazione paterna lo ha segnato per sempre». Soffriva di depressione: «Sì, ma lo nascondeva – racconta ancora al Corsera – Non è stata una famiglia facile in cui crescere, la nostra. Non siamo mai stati supportati, specialmente lui. Ne soffriva. Con me non ne parlava, non voleva mostrare debolezza, si sentiva pur sempre il fratello maggiore».

Poi arrivò il problema con la droga. «Mi ero accorto che in alcune occasioni aveva reazioni sopra le righe, era aggressivo. Qualche domanda me la sono posta. Ma se gli chiedevo spiegazioni mi rispondeva: “Tu fatti i fatti tuoi”. Se avessi intuito allora quello che sarebbe successo mi sarei imposto diversamente».

Le accuse e il patteggiamento. Poi nel 2005 venne accusato della morte per overdose di cocaina di una donna brasiliana nella sua casa di Genova. Alla fine patteggiò quattro anni di reclusione scontati in una comunità di recupero per tossicodipendenti. «Non si è più risollevato. Non fu colpa sua, è stata una disgrazia. Mio fratello provava profonda vergogna per aver disonorato la famiglia». E da quel momento «il lavoro si è azzerato. Non lo cercavano più. Aveva scontato la pena, ma contro di lui è rimasta una censura morale fortissima». L’unico ad aiutarlo Maurizio Costanzo. «Gli tese una mano, gli voleva bene. Ma lui fuggiva, tormentato dai suoi demoni». La sua fragilità e qualche nuova dissaventura lo fecero ricadere nel vizio. «Mi ero illuso che fosse stata solo una fase. Invece no. Provai a dirgli di smettere, che si stava rovinando. Reagiva con rabbia. “Tu non capisci, sei il più piccolo, non conosci la vita. Lavori nell’aziendina di papà, io mi sono fatto da solo”. Quando infine smise con la cocaina la sostituì con i tranquillanti. Sono stati quelli a ucciderlo, non la droga».

Roberto racconta che «Paolo voleva scappare da Roma, tornare a Genova. Si era riproposto come sceneggiatore, era bravo, ma poi ci fu il Covid e tutti i suoi progetti si bloccarono lì». Poi «una settimana prima che mancasse, gli ho telefonato per invitarlo a trascorrere insieme le feste di Natale. “Preferisco restare a casa mia”. Aveva la voce affaticata, sofferente, impastata. Era il preludio della fine». Una fine che arrivò la notte del 29 dicembre 2021. «Quando ho ricevuto la telefonata dell’amministratore di sostegno – “Paolo è morto” – non ci ho creduto. Con i tranquillanti mio fratello dormiva pure tre giorni di fila. Non sentiva il telefono né il citofono. Già due anni prima lo avevamo ripreso per i capelli. Risposi: “No dai, prova a scuoterlo, vedrai che si sveglia”. “Ti dico che è morto, Roberto”. “Controlla bene, dorme soltanto”. “Guarda che è già venuta la polizia”».

Roberto non «l’ho voluto vedere da morto. Ancora oggi, quando guardo le fotografie, me lo ricordo perfettamente. La sua pelle, i capelli neri, il naso, come se l’avessi visto un secondo fa». 


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