Arab Barghouti ha 35 anni. Ne aveva solo 12 quando suo padre, Marwan, è stato portato in carcere dalle forze di sicurezza israeliane. Per lo Stato ebraico, quell’uomo deve scontare cinque ergastoli e altri 40 anni di reclusione, condannato come il mandante di attentati e omicidi con finalità terroristiche sia in Israele che in Cisgiordania e per un tentativo di assassinio. Erano gli anni più duri dell’Intifada. Anni in cui Marwan Barghouti ha guidato l’ala militare di Fatah scalando le gerarchie del movimento e diventando uno dei leader più importanti. Un capo riconosciuto da tutti, che non si è mai difeso in tribunale rifiutandosi di riconoscere l’autorità israeliana. Per la sua liberazione si sono battuti in tanti, a partire dalla moglie, Fadwa, e da suo figlio Arab. Ma in questi decenni di detenzione, Barghouti non ha perso la sua forza. In Cisgiordania, tra le file di Fatah, ma anche nella Striscia di Gaza, sono in molti a credere che sia lui l’unico vero leader in grado di riunire i palestinesi. E quello che per Israele è un terrorista, per molti è un vero e proprio “Nelson Mandela palestinese”. Un uomo che da 23 anni è chiuso in carcere e che di recente è apparso in un video in cui il ministro della Sicurezza israeliano, Itamar Ben-Gvir, lo avvertiva a favore di telecamere dicendogli «Non ci sconfiggerete mai» in quella che a molti è apparsa una pericolosa e inutile umiliazione.
Come è stato vedere suo padre in quel video?
«Devo ammettere che è stato duro. Anzi, scioccante. Non vedo mio padre da tre anni, è stato inquietante vedere qualcuno come Ben-Gvir, che io considero essere un ministro razzista, fare quello ha fatto. Perché lui rappresenta il governo israeliano. Non è una persona qualunque, venuta dalla strada, è il ministro della sicurezza di Israele, quindi è molto preoccupante».
Cosa ha letto nello sguardo di suo padre?
«All’inizio è stato difficile accettarlo. Ha perso molto peso e non sembra stare bene di salute. Ma allo stesso tempo, ho visto anche altro: il suo sorriso. E quel sorriso mi ha davvero confortato».
Perché Marwan Barghouti è ancora così importante per i palestinesi?
«Sì, è ancora il leader palestinese più popolare, e la ragione è che è una figura unificante. La gente rispetta il fatto che sia un uomo capace di unire il popolo palestinese, una cosa di cui abbiamo un disperato bisogno e che serve anche per la stabilità di tutta la regione. Ma ciò che differenzia mio padre da tutti gli altri leader è che lui è disposto a pagare il prezzo delle sue scelte».
Il carcere è il prezzo della sua lotta?
«Il primo giorno che è andato in prigione, ha detto che se il prezzo della libertà del suo popolo era la propria libertà, lui era disposto a pagarlo. E penso che tutti quanti noi palestinesi tendiamo a rispettare i leader che sono disposti a sacrificarsi davvero per la nostra causa».
Questa causa passa anche per la pace tra israeliani e palestinesi?
«Io spero che ci sia la pace perché dobbiamo essere realisti e ricordare che noi palestinesi stiamo pagando il prezzo più alto. Più del 95% dei civili uccisi, delle demolizioni e delle distruzioni sono state dalla parte palestinese, quindi abbiamo bisogno di pace, ma deve essere una pace giusta».
Cosa intende per pace giusta?
«Mio padre dice sempre che meritiamo una pace giusta, non una pace qualsiasi. Abbiamo diritto a una pace che porti ai palestinesi libertà e dignità, perché se non viviamo con libertà e dignità, torneremo allo stesso ciclo di violenza, e andrà avanti così per sempre».
Il 7 ottobre e la guerra nella Striscia di Gaza forse hanno cambiato per sempre questa lotta. Quale è il destino della causa palestinese a questo punto?
«Penso che il destino della causa palestinese sia e resterà per sempre la nostra aspirazione alla libertà. Secondo mio padre ogni nazione al mondo merita di sentirsi indipendente e libera, e noi non facciamo eccezione, e continueremo a lottare per ciò che è giusto e per la giustizia. Vogliamo arrivare a un punto in cui potremo vivere in pace. Il nostro sogno è preoccuparci dei nostri figli e dello sviluppo del nostro Paese, della nostra economia, della normalità. Non vogliamo rimanere nello stesso circolo vizioso, e questo può accadere solo con la fine dell’occupazione».
Gaza è un elemento cruciale. Ma adesso, con la Cisgiordania in preda alle tensioni e con i nuovi progetti del governo israeliano, non pensa che in pericolo ci sia la stessa Autorità nazionale palestinese?
«Questa è la causa principale di tutti i problemi che negli ultimi anni stanno affliggendo questa terra. In Cisgiordania l’esercito israeliano ha fatto addirittura irruzione a Ramallah, le forze dell’Idf sono entrate fino nel mio quartiere. Per me è inquietante vedere soldati israeliani in giro per la città. Ma è un’altra prova che non abbiamo sovranità né sicurezza. E vorremmo che i media occidentali e i governi occidentali si preoccupassero della sicurezza palestinese tanto quanto si preoccupano della sicurezza israeliana».
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