Come direbbero i booktoker, Torino è “in hype” per il debutto letterario del sindaco Stefano Lo Russo. La città mormora, Palazzo Civico fibrilla. Si narra che nei corridoi del Comune, timidamente rianimati dopo le ferie, ci si dia di gomito: «Hai saputo del suo libro? Chissà chi fa morire. . .», «Pare ci sia anche qualcuno di noi in quelle pagine…». Lui centellina gli indizi, sempre a margine di incontri pubblici, credendolo (forse) un tema secondario, ma in realtà alimentando curiosità, aspettative, sospetti. È un noir tradizionale, scritto dal sindaco durante le vacanze estive, ambientato in una Torino composta e un po’ dark, tra le sue vie, i suoi bar e, soprattutto, dentro il suo Municipio.
Il delitto compare fin nelle primissime pagine. L’ispirazione? La serie di Harry Hole della Crime Squad, il detective uscito dalla penna dello scrittore norvegese Jo Nesbø, di cui Lo Russo è grande fan. Lui altro non vuole dire, ma da ambienti ben informati, qualche tassello del puzzle sinottico emerge. L’attenzione al politically correct sarebbe maniacale. I protagonisti? Due investigatori della squadra omicidi, un lui e una lei più alta in grado. Il cadavere è l’unico personaggio del romanzo nel quale davvero nessuno potrà riconoscersi. «Scrivo per passione, perché mi rilassa e mi diverte». Non per vendetta. Si potrebbe dire: nessun oppositore o nemico è stato maltrattato durante la scrittura. Tutti invece sono sospettati, sindaco incluso.
Il sindaco, quello vero, a quanto pare avrebbe descritto il sindaco, quello finto, come un uomo deciso, uno che sa il fatto suo, un politico scafato, insomma. Eppure anche lui finirà sotto torchio, a un certo punto del noir.
E poi c’è la Procura, il suo palazzone di cemento, e ci sono gli assessori interrogati, i giornalisti di giudiziaria. È previsto un blitz fuori porta, ma Torino resta lo sfondo principale. La sua atmosfera contribuisce a rendere realistica la trama. Il delitto è come la città: non smaccato, non cafone, ma raffinato. Siamo a novembre, c’è nebbia, i vetri sono appannati, il sole si congeda sempre più presto, è umido, le ombre si fanno lunghe. Torino è enigmatica, educata, composta, decorosa, una signora perbene, paziente, che tuttavia coltiva quel suo lato oscuro che tanti giallisti ha conquistato. Noir, appunto. Ci sono i giochi di potere a tenere alta la tensione. E quel pizzico di latente perfidia dello scrittore, un dio che tutto può sulle sue creature.
Il Lo Russo scrittore ha un vantaggio: il punto di vista privilegiato. Della città conosce angoli, pregi e difetti, criticità e valori. Dal suo balcone ha un colpo d’occhio agevolato. Nei suoi archivi mille fonti per idee.
Eppure pare non sia stato un episodio specifico, magari una lite in Sala Rossa, a smuovere il suo talento (finora) nascosto. La storia gli è nata a prescindere dalla fascia tricolore, da tempo annunciava «Scriverò un giallo come Nesbø». E tutti a pensare: a) Sta scherzando. b) Non avrà tempo. c) Torino non ha abbastanza neve come Oslo.
E invece. Si è divertito, specie nella scelta dei nomi. Se Simenon li pescava dalla guida del telefono, lui fa un mix and match tra amici, colleghi, personaggi noti della città. Al dipendente comunale può, ad esempio, prendere in prestito il nome ma affidargli un altro mestiere, oppure storpiarne il cognome sparigliando una vocale. Insomma, mescola e abbina. E omaggia. Diversi i cameo a persone care. Curioso sarà intercettarli, ma ancora di più ricostruire l’ipotetica veridicità di situazioni, telefonate, battibecchi. E poi ci sarà la gara a riconoscersi, in barba alla formula “Ogni riferimento è puramente casuale”.
La stesura sarebbe a buon punto (oltre 100 pagine). Il finale è già nella sua testa, il titolo non ancora. Vietato lo spoiler, prima è previsto l’editing, che si preannuncia delicato, non per la prosa ma per il contenuto.