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“Long Story Short” era sicuramente tra i momenti più attesi del piccolo schermo in questo 2025, perlomeno per i fan di Raphael Bob-Waksberg. Il suo “BoJack Horseman” ha cambiato per sempre l’idea di animazione per adulti, con il suo mischiare fantasy, indie, dramedy, commedia demenziale e pop culture. Ora questa avventura con cui l’autore si mette a nudo, ci parla del tempo che passa, di famiglia, lutti, gioia, sorprendendo per maturità e profondità dell’insieme.
“Long Story Short” – La trama
“Long Story Short” ci parla di una famiglia di ebrei americani, gli Schwooper, e parte dagli anni ‘90, per mostrarcene la vita con tutti i suoi stravolgimenti. Loro sono Avi, Shira, Yoshi, figli di Naomi ed Elliot, sono una famiglia tipica dell’universo ebraico americano, una realtà confusa, casinista, piena di vita, di amore. La struttura scelta da Raphael Bob-Waksberg non è regolare o prevedibile, e d’improssivo eccoci in questo XXI secolo, alle prese con il Covid19, un funerale che cambia tutto tra gli Schwooper. Di episodio in episodio capiamo qualcosa di più di ognuno di loro, della loro vita, di ognuno comprenderemo passato, futuro, come abbiano vissuto quegli anni, quanto influente sia stata lei, Naomi, quanto anche il padre Elliot, un po’ pasticcione, non particolarmente carismatico, ma capace comunque di far quadrare i conti, di rappresentare una figura tutt’altro che priva di meriti e qualità. “Long Story Short”, diciamolo subito, è completamente diverso da “BoJack Horseman”, una serie ormai mitica, parte della pop culture, o ciò che ne rimane, dei nostri giorni. Questa volta però, siamo distanti dal tono caustico, irriverente, dalla satira pungente che animava una volontà di demitizzare il mondo dorato di Hollywood.
Se lì si condannava la visione deformante della vita impostaci dai media, qui Waksberg invece sceglie di parlarci di una famiglia e non una famiglia qualsiasi ma una famiglia che lo rappresenta, ed è chiaro quanto sia importante per lui farci comprendere tutto ciò che riguarda una determinata visione della società, del focolare, dove la religione con i suoi riti, i momenti di passaggio, sono tutt’altro che secondari. Il tutto al servizio di un racconto che mette al centro il cambiamento, il tempo che passa, le cose che ci sfuggono di mano, quei ragazzi che crescono e cercano di capire se saranno all’altezza dei propri sogni, di ciò che pensano o vogliono da loro quei due genitori. Waksberg dimostra audacia nel modo in cui decide di affrontare di petto una comunità molto particolare, che ha dato tanto, tantissimo, al piccolo e grande schermo americano, in tutti i sensi, e che forse oggi è, per ovvi motivi, abbastanza sotto assedio. Qui ci porta dentro il loro retaggio culturale, il modo in cui la concezione di sé si modifica a secondo dei diversi momenti della vita, elementi che rendono questa serie animata da Lisa Hanawalt, ancora più preziosa, ancora più da scoprire di episodio in episodio.
Una famiglia alle prese col tempo che passa e tante sfide
“Long Story Short” ha il personaggio più interessante nella matriarca Naomi, che ci viene descritta come la classica mamma un po’ emotiva, un po’ ansiosa, fin troppo anche invadente verso quei figli che si sentono, ognuno a modo loro, un po’ inadeguati. Ma questa serie è anche un viaggio nel passato, o meglio ancora nella trasformazione della società americana, quella che si è mangiata letteralmente il ceto medio, che oggi non esiste più, quella che dai ruggenti anni ’90, e chi l’ha vissuti lo sa, caratterizzati da ottimismo, equilibrio, e un perfetto bilanciamento tra le varie componenti di una trasformazione continua, poi diventa invece un circo impazzito. Attraverso i protagonisti, viviamo le varie fasi della trasformazione dell’America, e Waksberg non ci risparmia nulla, compresa la pandemia. Piccola gemma animata, di cui è già stata preannunciata (dato il successo di questa prima stagione) anche una seconda, “Long Story Short” ci appare come un racconto familiare e, assieme, il racconto di un paese, di una comunità in particolare, di quanto è cambiata nel corso del tempo da non riconoscersi più. Siamo in modo abbastanza chiaro dalle parti della dramedy, quella più pura.
Qui, di episodio in episodio, si ride, anche parecchio, ma ci sono anche lacrime, c’è commozione, malinconia, ed è incredibile la qualità della scrittura attraverso cui Waksberg riesce a farci arrivare a ogni personaggio, ogni pregio e difetto, quanto il rapporto tra di loro sia tutt’altro che semplice. Ma soprattutto, questa serie si concentra su quanto il cambiamento a volte è veramente spaventoso, è il simbolo della nostra vulnerabilità. La vita è un attimo, ieri diventa passato, il futuro ci svegliamo e ci è sfuggito dalle mani forse, e allora un’intera generazione, quella Millennial, di cui lui rappresenta senza ombra di dubbio una delle voci autoriali più autentiche, non può che guardare questa strana famiglia, e vederla così familiare. Al di là della superficie, qui riconosciamo ciò che siamo stati e siamo oggi, quelle tante attese, speranze che sono svanite, le sfide che abbiamo affrontato. “Long Story Short” è veramente tanta roba, lo è però in modo discreto, meno arrembante dell’opera precedente, ma non per questo priva di poesia. Trasuda una capacità di essere universale che vive anche della veste grafica, così semplice eppure così facile suggestiva. Sicuramente un prodotto con tanto cuore ma anche tanto cervello.
Voto: 8,5