L’assassino dell’estate è il guacamole. Il botulino non uccide più tramite melanzane sott’olio malamente confezionate e poi sversate da nient’affatto malintenzionate nonne meridionali nei panini del pranzo a sacco per il mare: un quadro ormai passè, sequenza neorealista di quando eravamo brutti, sporchi e cattivi. Ora siamo belli, sani e buoni, mangiamo per ritardare l’invecchiamento, collocarci politicamente, prendere posizione sul mondo e salvarlo.
La scheda
Cos’è il botulismo, come prevenirlo e come riconoscerlo. In Italia 574 casi confermati dal 2001
13 Agosto 2025
L’avocado, che del guacamole è ingrediente fondativo, e dal guacamole è arrivato ovunque, unico migrante colonizzatore del nuovo secolo, assolve a tutte queste funzioni. Fa bene, benissimo, ha gli omega3, le proteine, sta bene su tutto giacché non sa di niente, è un frutto, è verde, quando è crudo sembra cotto, obbedisce al cucchiaio e alla globalizzazione senza perdere esotismo. Ha proprietà prodigiose, e noi mangiamo solo prodigi. Finiamo sempre seduti accanto a un nutrizionista velleitario che ce li spiega. E che naturalmente fa il magistrato, il giornalista, il prete, l’ad, l’au, il dc, il ct, ma di niente s’intende e sa come di quello che dovresti mangiare, e quando, e quanto. Dieci anni fa eravamo circondati da pazienti di psicanalisti, ora siamo attorniati da pazienti di nutrizionisti, tutti ugualmente e accanitamente certi di dover divulgare le terapie a cui sono sottoposti. Le chiamano percorsi.
Un menù bugiardino
Tra le loro mani, il menù diventa un bugiardino: ti dicono, di ogni piatto, composizione, posologia, possibili effetti collaterali, gravi ancorché silenti. E poi l’impatto ambientale, soprattutto quello, poiché i nutrizionisti velleitari sono nella maggior parte dei casi anche fini conoscitori delle quantità di anidride carbonica che vengono immesse nell’atmosfera durante tutto il processo che porta da una podolica lucana che pascola felice nell’agro di Moliterno al controfiletto che hai per uno spericolato istante pensato di poter ordinare, prima di venire istruita sull’inemendabile danno che la sua preparazione ha arrecato al respiro del mondo.
Nutrizionista taci
Prima, quando mangiavamo bene anziché sano, e dei piaceri ci interessava il sapore e non il beneficio, il nutrizionista velleitario veniva indotto al silenzio da sguardi di eloquente disprezzo, mentre adesso è caldamente invitato a sacramentare, insegnare, guidarci, introdurci. Gode del medesimo prestigio sociale dell’astrologo, e come lui ci racconta che tutto è nelle nostre mani, che la volontà corregge il destino: stelle e ricette sono sensibili all’evoluzione personale (dai, chiamiamolo percorso).
Gli intolleranti
Ultimamente, però, capita con crescente frequenza che il nutrizionista velleitario venga interrotto, discusso, talvolta smentito da almeno due minoranze: i patenti (chiameremo così gli affetti da intolleranze, allergie, malattie autoimmuni) e gli ecologisti, assai più esperti e radicali di loro.
A cena, a pranzo, a merenda, in tutte le occasioni nelle quali si agisce l’antica arte italiana di parlare di cosa si mangia mentre si mangia, il confronto dialettico più serrato è tra nutrizionisti, ecologisti e patenti, detentori di diritto dell’ultima parola perché loro sono le vittime, le inascoltate Cassandre, gli inguaribili, tesi di laurea di omotossicologi e primi esemplari della specie umana del futuro, capace di respirare amianto ma non di digerire carboidrati. Loro guardano le etichette di tutto, chiedono ai camerieri con quali materiali viene cucinata ogni pietanza, se lo chef usa i guanti, se è aggiornato sulle contaminazioni.
Quando cerchi di sdrammatizzare, e ti dici vegetariana con tendenze vegane, e fai una cosa schifosamente cringe, racconti la reazione di tua nonna quando glielo hai comunicato, ti guardano tutti come un ventenne guarderebbe oggi il Bagaglino, con seccata accondiscendenza. Comprendi l’errore. Taci. Per recuperare aspetti che il nutrizionista finisca di spiegare a un malcapitato cameriere in che modo l’acqua in bottiglia provoca il cancro al cervello, a meno che la bottiglia non sia di vetro, in quel caso cambia tutto, lui ha un servizio a domicilio in sharing che ti consiglia vivamente.
Vino alcol free
Proponi di scegliere il vino e scopri di quanti e quali sottoinsiemi è composto l’universo degli astemi, perché naturalmente nessuno beve, bere è come fumare: novecentesco, inquinante e sostituibile. Ti propongono del vino alcol free e per la prima volta nella tua vita vorresti essere in Veneto, e capisci profondamente quella canzone di quel cantante che ha segnato la tua generazione (Vasco Brondi), che parla di una ragazza che da Milano torna in Veneto perché non sopporta più i rumori, le macerie, le false speranze: come lei, hai anche tu scritto in faccia che ti vuoi ammazzare. Al vino analcolico non ti pieghi. E neanche alla birra analcolica. Osi persino difendere la tua posizione, sembri Gerard Depardieu. E dici: meglio l’acqua. E spieghi di preferire una privazione al surrogato.
Generi così un dibattito ermeneutico sul valore dell’abitudine, che punta a convincerti del fatto che il vino che hai sempre bevuto non era buono, era semplicemente il solo vino che hai bevuto, e che adesso puoi (devi?) abituarti ad altro, a un sapore nuovo, diverso, loro l’altra sera hanno preso dei cioccolatini ripieni di sardine, all’inizio facevano schifo poi sono diventati squisiti. Il gusto va allenato, ti dicono, mentre tu te ne stai come il persico in quella canzone di Cremonini: in fondo al fiume a immaginare l’oceano. C’è una scena di Hook Capitan Uncino in cui i bimbi sperduti, incaricati di far tornare in sé Peter Pan (tornato all’Isola che non c’è dopo aver trascorso molti anni a Londra, da adulto, e come se non bastasse da avvocato), si siedono a cenare davanti a una tavola imbandita solo dalla loro immaginazione: i piatti sono vuoti, ma è parlando di quello che ci vorrebbero dentro che i bambini li riempiono.
C’è stato un tempo in cui parlavamo di cibo in quel modo lì: disquisivamo e litigavamo in ogni pranzo o cena o spuntino di famiglia, di lavoro, di festa, di matrimonio, di commiato, di corteggiamento. Del cibo ci interessava il gusto che dava e non l’effetto che provocava. Si iniziava con «io invece le viscere le friggo nel lardo, prova», e si finiva con il molto dettagliato racconto di quello che si era mangiato la sera prima. L’obiettivo di ciascuna di quelle conversazioni era uno, semplice e chiaro: potenziare il piacere. Parlare del modo migliore di rosolare l’abbacchio mentre si masticavano linguine allo scoglio era come abbracciare l’universo, come cantare l’Odissea, metteva in circolo un amore per la vita che non aveva paura di niente, non conosceva diabete, vecchiaia, malattie cardiovascolari: era un tempo in cui ci accontentavamo di far finta di essere sani. Ora, invece, sani lo siamo. Sani e infelici.
Parliamo con così tanto lugubre seriosità di ciò che mangiamo perché mangiamo con altrettanta lugubre seriosità, posseduti da una irragionevole smania di allungarci la vita, consacrati alla salute, del tutto indisposti a considerare che l’infelicità che arreca la pokè sia altamente cancerogena.
La ciotola Pokè
La pokè è una ciotola per cani in cui ammassiamo ingredienti con un unico criterio: fanno bene. “Fa bene” è il distico che ha sostituito “è buono”, il mantra che ha decolorato, desalinizzato e disincantato le nostre esistenze. La bevanda dell’estate più noiosa di sempre, questa che per fortuna sta finendo senza neanche una canzone (tormentone, se volete), si chiama “Billion dollar smoothie”, costa 30 dollari, contiene banane, olio, latte vaccino, proteine vegetali, maca, burro di arachidi e, secondo la parrucchiera (pardon, hair stylist) che lavora dove è stata inventata, naturalmente un locale polifunzionale di Los Angeles, è l’apripista della fine dei drink, anche perché costa più di un drink: presto andare a bere sarà una splendida alternativa al ricovero.