Il gigantesco fondo sovrano norvegese, che gestisce la ricchezza petrolifera del paese, è al centro di grosse polemiche politiche a causa dei suoi investimenti in aziende israeliane. La questione è diventata così importante che potrebbe avere un ruolo nelle elezioni dell’8 settembre, dove secondo i sondaggi le due coalizioni, di centrodestra e di centrosinistra, sono praticamente alla pari.

Questo è inusuale: solitamente in Norvegia i partiti politici fanno in modo di tenere il fondo sovrano lontano dal dibattito pubblico. Ma questa volta l’amministratore delegato del fondo, Nicolai Tangen, è arrivato a dire che è in corso «la peggior crisi di sempre», perché mette in discussione la gestione del più grande fondo sovrano del mondo.

Il fondo norvegese è detto “fondo del petrolio” perché gestisce 1.900 miliardi di dollari provenienti dalla vendita di petrolio. È talmente ricco che, se il suo patrimonio dovesse essere diviso tra tutti i norvegesi, ciascuno riceverebbe circa 350.000 dollari, neonati compresi. Il fondo è gestito dal ministero delle Finanze e investe per conto di tutto il popolo norvegese le sue enormi risorse in quasi 9.000 aziende internazionali.

Le polemiche sono cominciate quando a inizio agosto il giornale Aftenposten ha rivelato che il fondo aveva investito in Bet Shemesh Engines Holdings, un’azienda israeliana che fornisce manutenzione ai motori dei caccia impiegati da Israele per bombardare la Striscia di Gaza. La notizia aveva avviato un dibattito generale sugli investimenti nelle aziende israeliane, che fino ad allora era rimasto confinato tra i circoli degli attivisti a favore della Palestina e tra le organizzazioni di sinistra.

Per rispondere alle polemiche, il fondo ha cominciato a disinvestire dalle aziende israeliane considerate compromesse con l’esercito o coinvolte in attività economiche nei Territori palestinesi occupati, cioè la Cisgiordania e Gerusalemme Est.

Le aziende israeliane in cui il fondo norvegese investe sono passate da 61 (per un valore di 2,2 miliardi di dollari in azioni) a 32 nel giro di poche settimane. Questo è coerente con le regole di gestione del fondo, che disinveste dalle aziende coinvolte in violazioni dei diritti umani o del diritto internazionale. Già prima dell’inizio della guerra a Gaza aveva disinvestito per esempio da alcune aziende israeliane che operavano nella Cisgiordania occupata.

Alcuni partiti e i gruppi di attivisti per la Palestina vorrebbero però che il fondo annullasse interamente tutti i suoi investimenti verso Israele, come aveva già fatto nel 2022 con la Russia dopo l’invasione su larga scala dell’Ucraina. Questa posizione è sostenuta anche dal 62 per cento della popolazione norvegese, secondo i sondaggi.

Qui arriva il problema politico. La maggior parte delle forze politiche norvegesi è contraria a un boicottaggio totale delle aziende israeliane, perché potrebbe essere visto come un atto politico che viola la storica neutralità del fondo, che ha sempre cercato di tenersi fuori dalle polemiche. «Abbiamo combattuto duramente per fare in modo che il fondo non fosse politico», ha detto Erna Solberg, ex prima ministra e attuale leader del Partito Conservatore, il più importante dell’opposizione di centrodestra.

L’establishment norvegese, inoltre, teme che il boicottaggio di Israele possa essere malvisto anche a livello internazionale, e provocare per esempio la reazione degli Stati Uniti, il principale alleato di Israele.

Ma la questione degli investimenti nelle aziende israeliane sta dividendo la sinistra, che attualmente è al governo. Il Partito Socialista di Sinistra, che governa assieme al Partito Laburista, ha annunciato che non sosterrà più i Laburisti nella prossima legislatura se non accetteranno il boicottaggio completo delle aziende israeliane da parte del fondo. I Laburisti sono contrari, ma in difficoltà, perché anche parte del loro elettorato è contro Israele.

Jens Stoltenberg – ex leader Laburista, ex primo ministro, ex segretario generale della NATO e ora ministro delle Finanze, dunque la persona che sovrintende al fondo – ha detto al Financial Times che per queste ragioni è necessario trovare «il giusto equilibrio». Per lui l’equilibrio è disinvestire dalle aziende compromesse con l’esercito, ma non punire tutte le aziende israeliane.

Queste divisioni nel centrosinistra arrivano in un momento delicato, in cui i sondaggi danno al centrodestra 85 seggi nel prossimo Parlamento e 84 al centrosinistra: bastano pochi voti per decidere la maggioranza.