di
Davide Frattini
Mariam Abu Dagga aveva mandato il figlio dai parenti, negli Emirati Arabi, per metterlo al riparo dalle bombe, e aveva donato un rene a un malato. È morta lunedì, insieme con i colleghi Hussam Al Masri, Muaz Abu Taha, Mohammed Salama e Ahmed Abu Aziz
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
GERUSALEMME – «Prima della guerra – raccontava Mariam nel gennaio del 2024 – mi piaceva fotografare le cose belle». Quel “prima” era ormai lontano nella memoria più dei cinque mesi passati dall’inizio dell’offensiva israeliana. Il tempo reso ancora più vuoto dalla decisione di mandare il figlio dai parenti negli Emirati Arabi per proteggerlo dalle bombe, vuoto eppure riempito dal dolore delle foto scattate un giorno dopo l’altro, mentre a Gaza le cose belle sbiadivano fino a scomparire.
Le sue parole accompagnano un’immagine ripresa per le Nazioni Unite: un gruppo di bambini che mangia del riso per strada, provano a organizzare un tavolo in comune sull’asfalto insudiciato, la miseria che non è ancora la carestia di queste settimane. Quelle più recenti – raccolte dall’Associated Press a cui le inviava per il circuito internazionale – mostrano già l’abisso della fame che non può passare, la gente accalcata attorno ai centri di distribuzione per gli aiuti, le donne sdraiate sui carretti durante le evacuazioni forzate dopo l’ennesimo ordine dell’esercito, i bambini malnutriti, feriti e uccisi nei bombardamenti.
Molte provengono dall’ospedale Nasser, uno degli ultimi funzionanti, dove Mariam Abu Dagga è stata uccisa con altri quattro colleghi. Raccontano da Gaza che qualche mese fa aveva donato un rene a un malato. «Voglio che preghi per me e non pianga per me, così potrò essere felice. Voglio che tu tenga la testa alta, che studi, che tu sia brillante e distinto, che diventi un uomo che vale, capace di affrontare la vita, amore mio. Non dimenticare che io facevo di tutto per renderti felice, a tuo agio e in pace, e che tutto ciò che ho fatto era per te. Quando crescerai, ti sposerai e avrai una figlia, chiamala come me». Mariam ha lasciato un testamento per il figlio Gaith, sapeva quanto fosse pericoloso il suo testimoniare: il Comitato per la protezione dei giornalisti considera questo il conflitto più letale per i reporter, quasi 200 sono stati ammazzati dall’inizio delle battaglie, tutti palestinesi.
Gli israeliani non permettono ai media internazionali di entrare nella Striscia in modo indipendente, unica concessione sono gli ingressi – sporadici, limitati e per poche ore – con i convogli militari.
Hussam Al Masri è stato centrato dall’esplosione nel momento in cui stava garantendo che le telecamere della Reuters funzionassero, continuassero a riprendere la devastazione, anche in mezzo al raid israeliano. Non ha lasciato la postazione, il giubbotto antiproiettile e l’elmetto non potevano bastare a proteggerlo, di sicuro non la scritta «Press» (stampa) anche se dovrebbe in tutte le guerre del mondo. Assieme a lui è stato ferito Hatem Khaled che aveva un contratto come tecnico sempre per l’agenzia britannica.
Due settimane fa Muaz Abu Taha aveva tenuto la telecamera sulla spalla mentre si muoveva tra le corsie del Nasser, collegato in diretta con due giornalisti di Haaretz, era stato i loro occhi rivolti nello sprofondo: il quotidiano israeliano ha documentato la tragedia nell’ospedale, le immagini dei bambini scheletrici, ha raccolto le cartelle cliniche che provano la malnutrizione di almeno cinquanta piccoli.
Il cameraman Mohammed Salama è il decimo giornalista di Al Jazeera, l’emittente di proprietà del Qatar, a essere ucciso durante questi ventidue mesi di guerra.
Ahmed Abu Aziz aveva continuato a raccontare l’orrore dei bombardamenti anche dopo una ferita alla schiena. Gli israeliani per sostenere che fosse un propagandista per Hamas avevano diffuso alcuni suoi post via social media in cui esaltava i massacri del 7 ottobre 2023, 1200 persone uccise dai terroristi palestinesi.
25 agosto 2025
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