Stamattina mi sono alzata e non sapevo dove andare o quale voce ascoltare. Oggi è il primo vero «giorno dopo». Ieri e martedì, appena svegliata, un caffè la doccia e via di corsa da Laura, alla sua camera ardente. Lunedì, dopo una notte insonne, avevo raggiunto la sua casa di Montebello. Le ho tenuto la mano mentre lasciava questo mondo. Prima, in quel prima costellato anche di rimpianti, c’era sempre un suo vocale nel telefono, o sapevo che nel corso della giornata ne sarebbero arrivati tanti. Adesso non restano che ricordi della mia amica Laura. La donna che ha reso il suo corpo ingabbiato dalla malattia un simbolo di lotta e la sua morte un atto politico potente.
La promessa di non piangere
«Fra se ti chiamano a scrivere di me anche in altri giornali o qualcuno volesse intervistarti in trasmissioni tv o dovunque sia, non fare la cretina che pensi di approfittare della mia memoria: vai. Io sarò lì con te e ne sarò felice». Aveva previsto tutto Laura Santi, per me una sorella, nelle nostre infinite chiacchierate – preferibilmente al buio in camera sua – delle ultime settimane. «Vedrai che Vanity te lo chiede sicuramente, mi raccomando, raccontami come solo tu potresti fare, perché c’eri». Ci provo Laura, le ho promesso. Ci provo.
Era impossibile sottrarsi alle sue promesse, ne ha estorte (lo dico con amore immenso) a diverse persone. Ha lasciato compiti per le vacanze alla sua cerchia ristretta, affinché la sua memoria rimanga per sempre viva. «Custoditela e ricordatemi» ha detto a me e Francesca Mannocchi un attimo prima di entrare in camera sua e auto somministrarsi il farmaco letale. Ci ha volute lì con lei in quegli ultimi minuti in vita, come ci aveva volute per consegnare il suo testamento morale da diffondere a tutti. Ci ha chiesto uno sforzo enorme lunedì mattina. «Se decido di parlarvi, niente lacrime». Niente lacrime, facile a dirsi. E invece lei è riuscita a far accadere anche l’impensabile: due amiche, io e lei ormai eravamo diventate simbiotiche almeno nella comunicazione, perché il resto del tempo della vita di Laura se lo mangiava la malattia, che si salutano mentre una delle due va a morire, senza lacrime.
Un male feroce e un addio consapevole
Ma non senza dolore. E non solo il mio, che egoisticamente ho perso una donna straordinaria e ineguagliabile a cui ho voluto e vorrò un bene senza pari. Anche il suo. Laura non è morta inconsapevolmente o senza paura. Nelle settimane e nei giorni che hanno preceduto il suo gesto più estremo ne abbiamo parlato tanto. «Ho paura di aver paura», mi diceva quando la data non era ancora così vicina. «Se mi prende l’istinto di conservazione poi che faccio?». Non voleva infliggersi altra sofferenza se avesse rinunciato. Io gliel’ho detto tante volte: «Se non te la senti La non lo fai, la vita è tua». Ma lei rispondeva sempre: «Si ma per fare cosa? La mia malattia non torna indietro, anche nelle ultime settimane e negli ultimi giorni è peggiorata tantissimo, lo sai». Ormai si era presa tutto: gambe, tronco, braccia, intestino, vescica. La sua testa era inarrivabile, ma il suo corpo era ostaggio del male feroce. Con le manovre invasive che ormai le lasciavano solo un paio d’orette quotidiane di tregua.
E quell’amore profondissimo per la vita
Nessuno può pensare di andare a morire senza remore o tentennamenti. E non lo ha fatto nemmeno lei. Ma sapeva di dover tenere i nervi saldi. E’ anche per questo che dal giovedì precedente alla sua morte Laura ha chiesto di ridurre le comunicazioni solo all’essenziale e operativo. «Niente messaggi di affetto, ci amiamo, lo sappiamo. Devo restare concentrata su me stessa e sul mio cuore, devo raccogliermi e dare la possibilità alla paura di entrare e convivere con me come un ospite discreto». Perché è vero che Laura Santi ormai viveva quella che lei definiva «la sua tortura quotidiana per tutti i giorni della sua vita», ma è pure vero che quella vita lei la amava profondissimamente. Alla fine, come ha fatto anche col resto, grazie alla sua lucidità disarmante e intelligenza superiore, ha addomesticato pure la paura. «Me ne vado serena», ci hai rassicurato,» ci ha raccontato lunedì mattina. «Voi raccontate che ho vinto: sulla malattia, sul dolore, sulla schiavitù».
Insieme fino alla fine
Io te l’ho promesso sussurrandotelo mentre ti tenevo la testa tra le mani nel nostro ultimo abbraccio, un regalo enorme che mi hai concesso nonostante avessi detto «niente saluti tra noi, è come se fossi sempre con me». Era lunedì mattina, e prima di imboccare una strada senza ritorno, guardandomi con l’affetto di una sorella maggiore, come facevi sempre tu, mi hai detto: «Dai vieni qua Fra che tu lo so, mi vuoi stringere». Con questo mio ricordo, sto iniziando a farlo. Non è semplice: il dolore per la tua scomparsa è ancora troppo totalizzante. Ma le promesse si mantengono. E questa è solo la prima. Del resto, quando ho accettato di accompagnarti fino all’ultimo, sapevo che quell’immenso amore era intriso di dolore. Per il distacco, per lo sforzo sovrumano che mi stavi chiedendo. Quanto ti sei scusata per questo. «Perdonami tesoro se ti faccio del male, non vorrei mai fartene», mi ripetevi. Ma già sapevi, prima ancora che io te lo ripetessi ogni volta, che l’amore, quello vero, non teme il male che può causare.
«Ho sognato che lasciavo andare un palloncino azzurro»
Eppoi di fronte alla scelta che stavi per compiere, qualunque altra cosa per me ha perso il diritto di essere considerata un problema. L’hai raccontato anche tu nel video che ieri abbiamo proiettato al tuo commiato. Francesca, che ti amava come una sorella pure lei e che tu andandotene hai regalato anche a me, unendoci indissolubilmente in un’esperienza senza eguali, lo ha voluto proiettare. In quelle immagini (registrate una settimana prima della tua morte), straordinariamente intense e strazianti, taglienti com’eri tu, dicevi: «Le cose irrilevanti sono finite, sto arrivando sempre più all’essenziale della vita, sono arrivata al culmine l’ho portata a compimento. La mia vita è stata colpita da un dramma, la malattia mi ha stuprato la vita e io adesso sono fiera di me, di quello che ho fatto».
Venerdì invece, dopo la prima giornata senza comuncazionea, quando ancora la mattina facevo colazione ascoltando un tuo vocale – e non sai quanto sia felice di avere ore e ore di registrazioni in cui potrò andare a cercarti ogni volta che mi mancherai – mi hai raccontato: «Stanotte ho sognato che lasciavo andare un palloncino azzurro, e sai che ho scelto proprio un vestito azzurro per la mia morte? Sono sicura che andrà tutto bene amica mia». Qualche giorno dopo, dopo la prima giornata di comunicazioni ridotte, ero stata io a sognare te. Te l’ho raccontato in uno dei nostri ultimi messaggi. Mi abbracciavi e ti muovevi libera, come prima che la malattia si prendesse il tuo corpo. Eri bellissima e vestita come il giorno delle tue nozze. E mi dicevi «Fra tesoro andrà tutto bene». Senza te andrà molto meno bene, ma resterai la mia ispirazione. Sempre.
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Foto courtesy of Guido Harari