A Emanuela Fanelli, romana, 39 anni, quest’anno spetta il compito di condurre le cerimonie di apertura e chiusura della Mostra di Venezia (27 agosto – 6 settembre). Non si dice più madrina, anche perché non s’è mai detto “padrino” quando per lo stesso ruolo furono scelti degli uomini. Ma Emanuela Fanelli ha una sua teoria in proposito e l’ha spiegata sui social: «A quanto ho capito da quest’anno il ruolo non si chiamerà più “madrina” forse perché, scegliendo me, temevano potessi approfittare del gancio per accompagnare la notizia con “disponibile anche per battesimi e cresime”. Spiace, un’occasione d’avanguardia umoristica mancata». Con Emanuela Fanelli va così: l’ironia vince su tutto.
È un dono di famiglia, coltivato con amore da genitori e nonni che le hanno insegnato a ridere: «“Io che rido” è un po’ il sunto della mia infanzia. Papà mi chiama ancora “gengivetta” perché ridevo anche quando non avevo ancora i denti. La vita mi ha regalato un’infanzia felice, che, dopo, mi ha dato un sacco di forza», ha raccontato al Corriere della Sera. Il suo primo ricordo di bambina è, in effetti, lei che ride con la nonna materna: «Aveva tirato giù i pantaloni al nonno per fargli uno scherzo. Era molto simpatica». Era la stessa nonna che le ha insegnato le parolacce in calabrese e poi gliele faceva ripetere al telefono a persone chiamate a caso.
Mamma sarta e papà contabile l’hanno avuta molto giovani: «I primi tre anni abbiamo abitato con la nonna paterna, adorata anche lei, a Largo Preneste, non proprio un quartiere “alto” di Roma». Poi il trasferimento a Morena, periferia di Roma che Fanelli ricorda senza prevedibile retorica: «Non è un racconto del Bronx. Era un posto carino, sono cresciuta con cugine, zie che mi hanno voluto bene». In quella casa, dice, ha imparato ad amare bene: «L’amore è mamma che mi faceva il bagno e mi metteva il pigiama caldo preso dal termosifone. È papà che tornava a casa stanco, ma si metteva a fare due tiri di pallone con me. Sono le cose che ti fanno sentire amata e che mi hanno insegnato a riconoscere l’amore». Con questi esempi, la piccola Emanuela non poteva che essere una bambina simpatica: «Alle elementari avevo successo con i maschietti, ero vivace, giocavo a calcio. A San Valentino ero piena di regali, mi scrivevano le letterine d’amore a cui rispondere “sì”, “no”, “forse”. Io mettevo “forse” a tutti. Ero piena di dubbi. Penso che un tale successo non l’abbia avuto mai più», ha raccontato in un’intervista al quotidiano la Repubblica.
Se questi erano gli amori di bambina, a 4 anni incontrò l’amore grande, cioè il teatro, grazie alla nonna paterna che la portò a vedere Aggiungi un posto a tavola di Garinei e Giovannini: «Lei era l’unica ad aver visto la mia attitudine ironica, ma nessuno le dava retta. Raccontava che, mentre mi faceva il bagno, io a 2 anni avevo fatto il verso alla pubblicità di un sapone con una donna nella vasca di schiuma che diceva con voce flautata: Camay». Più grande, a scuola, era molto apprezzata per la sua simpatia: «Ero amica un po’ di tutti, mi chiedevano di raccontare storie, di fare un’imitazione. È stato il modo per farmi voler bene». Per seguire un ragazzo di cui s’era invaghita, si iscrisse a un corso di teatro: «Ma dentro covavo già il sogno di fare l’attrice, anche se lo tenevo per me. Debuttai a 17 anni al teatro parrocchiale Capocroce nel ruolo di Turandot: protagonista, ma noiosissima. Andò meglio l’anno successivo: nell’Opera da 3 soldi, fui la signora Peachum, vecchia bagascia ubriaca che mi ha fatto capire che far ridere mi piaceva di più», ha ricordato in un’intervista a Oggi. Con la solita vena autoironica racconta che ai laboratori di teatro veniva colta da dubbi atroci: «Arrivi e 20 estranei, nel presentarsi, iniziano a raccontare cose privatissime, tipo “mio padre è in galera. Mia madre non mi ha mai amato…”. Io stavo lì e mi chiedevo: mo’ che dico? Pensavo: io non posso fare attrice, non ho ‘sto dolore, non ho proprio il motore. Un anno, mamma era stata male. Sono riuscita solo a dire che tornava dalle cure con la faccia pesta e noi le cantavamo Faccetta nera bell’abissina. Non è che non soffrissi, ma ho pudore dei sentimenti importanti, sia dolorosi sia belli».
Negli anni in cui terminava il liceo classico, si iscriveva all’università senza finirla e iniziava a fare qualche lavoretto (cameriera e call center), continuava a recitare in compagnie teatrali dei Castelli Romani, sempre con l’idea che fosse un hobby. Il lavoro vero a un certo punto diventò insegnare all’asilo. Le piaceva e per farlo meglio che potesse andò anche dallo psicoterapeuta: «Ho pensato: prima di fare danni e mandare in giro futuri serial killer, mi devo dare una sistematina pure io. Fra le altre cose, dissi alla psicologa che, a volte, sentivo che la mia felicità stava da un’altra parte perché avevo questo pallino dell’attrice». Quello di maestra è il mestiere che pensa di poter tornare a fare se, come l’ammonisce spesso una vocetta interiore, a un certo punto non la chiameranno più per recitare: «Insegnare mi piaceva molto, ho fatto tanti mestieri ma quello l’ho fatto per 10 anni e ho pensato che avrei potuto farlo per tutta la vita se non fossi riuscita come attrice. Se non dovessi più avere proposte per cose che mi piacciono, posso sempre tornare a fare la maestra. Questo mi dà una grande forza. So che so far bene anche un’altra cosa nella vita e non mi importa se non mi vede nessuno».