La disputa tra Stati Uniti e Cina sui dazi ha trovato un nuovo oggetto del contendere: i magneti ricavati dalle terre rare. Washington non nasconde l’irritazione per la dipendenza da Pechino, che presidia quasi per intero la catena produttiva globale.
Donald Trump ha quindi deciso di trasformare questi piccoli pezzi di metallo, fondamentali per auto, elettronica e rinnovabili, in un’arma politica. I suoi proclami, che oscillano tra minacce di dazi esorbitanti e il congelamento di componenti per aerei, hanno riportato i magneti sotto i riflettori della geopolitica.
Per l’Europa, dove il legame con la manifattura cinese è già profondo, il discorso sui magneti non è affatto secondario: i possibili nuovi dazi potrebbero tradursi in importazioni più convenienti e in pressioni al ribasso sui prezzi, ma anche in ulteriori dipendenze da un’unica fonte di approvvigionamento.
La minaccia dei dazi sui magneti cinesi
La tensione tra Washington e Pechino non si ferma ai dazi già in vigore. Durante un incontro nello Studio Ovale con il presidente sudcoreano Lee Jae Myung, Trump ha affermato che la Cina deve continuare a fornire magneti agli Stati Uniti, minacciando nuove imposte fino al 200 per cento in caso contrario.
Pechino controlla circa il 90 per cento della produzione mondiale di questi componenti e domina anche la raffinazione dei minerali da cui derivano. Una cosa che l’impero americano non può accettare.
Nonostante i toni minacciosi di Trump, Pechino ha ripreso a inviare magneti verso gli Stati Uniti, riportando i volumi ai livelli precedenti alle restrizioni di primavera. Già a giugno, per esempio, le esportazioni sono schizzate oltre sei volte rispetto al mese prima, e a luglio il ritmo non si è fermato. Washington e Pechino hanno stretto un accordo provvisorio che allenta alcuni vincoli sulle terre rare e riduce le limitazioni americane su tecnologie sensibili. L’intesa prevede un abbassamento dei dazi reciproci al 55 e al 32 per cento, ma ha una scadenza fissata a metà novembre.
I dazi sulla Cina potrebbero avere ripercussioni in Europa
Washington ha imposto sovrapprezzi record sulle merci cinesi, arrivando fino al 135 per cento del valore. La mossa ha reso meno appetibili i prodotti di Pechino negli Stati Uniti e costretto i produttori a guardare altrove. Secondo la Bce, proprio l’Europa rischia di diventare il terminale naturale di questa deviazione dei flussi, con una parte consistente delle esportazioni cinesi pronta a riversarsi sul mercato comunitario.
Secondo la Banca Centrale Europea, se le esportazioni cinesi venissero deviate dall’America all’Europa, l’impatto sarebbe immediato. Le stime parlano di un aumento delle importazioni fino al 10% già nel 2026.
Nulla di sorprendente per Francoforte: il legame con il made in China è ormai radicato. Più di quattro aziende europee su dieci acquistano merci prodotte in Cina, con punte elevate nei settori dell’abbigliamento, delle calzature e degli elettrodomestici.
Affinità di ferro tra export cinese e mercato europeo
Gli economisti hanno notato che i prodotti cinesi destinati agli Stati Uniti non sono molto diversi da quelli inviati in Europa. Questo rende facile dirottare i container dal porto americano a quello europeo, con l’Unione Europea pronta ad accogliere ciò che non trova più acquirenti oltreoceano. La svalutazione del renminbi aggiunge un altro incentivo: per gli importatori europei comprare dalla Cina diventa ancora più conveniente.
Quali conseguenze sui prezzi in area euro
Un aumento delle forniture cinesi avrebbe effetti diretti sulla dinamica dei prezzi. Sempre la Banca Centrale Europea avverte che potrebbe rallentare l’inflazione dell’area euro di circa 0,15 punti percentuali nei casi più estremi. Ma i consumatori non vedrebbero benefici immediati: il calo dei costi di importazione tende a filtrare lentamente nei listini, in particolare per i beni industriali non energetici.
Dazi digitali e restrizioni sul mercato tecnologico
La frizione non riguarda solo Pechino. Trump ha deciso di puntare il dito anche contro i Paesi che applicano tasse digitali considerate una stangata per le big tech americane. Attraverso i suoi canali ufficiali ha avvertito che, se quelle regole non verranno cancellate, scatteranno dazi aggiuntivi e restrizioni sull’export di semiconduttori. Così la battaglia si allarga al settore dei chip e all’intero universo digitale, con l’Europa che rischia di trovarsi sulla linea del fuoco.