di
Renato Franco
Fake prima che il fake diventasse di moda, ha vissuto la sua vita come un ininterrotto show. Le telecronache di Dan Peterson e l’endorsement per Trump
Fake prima che il fake diventasse di moda. La caricatura della violenza, la parodia dello scontro, la deformazione della lotta primordiale, a partire da quel fisico da cavernicolo platinato: i baffi a manubrio, i capelli prima lunghi sulle spalle, poi nascosti da una bandana, i muscoli pompati in modo innaturale. Non era sport, ma era sicuramente spettacolo il wrestling che aveva invaso il palinsesto della tv italiana in quegli anni Ottanta che importavano i simboli dell’America più profonda e vera (che paradosso, l’America più autentica riprodotta da quanto di più falso). Hulk Hogan ne era il rappresentante più fulgido: il wrestler patriottico, ipertrofico, carico di retorica da cinema d’azione, un supereroe in carne e ossa.
Terry Gene Bollea — aveva origini italiane, suo nonno era nato in provincia di Vercelli — icona mondiale del wrestling professionistico, è morto a 71 anni nella sua abitazione di Clearwater, in Florida, in seguito a un arresto cardiaco.
Aveva cominciato con il baseball a livello semi-professionistico e per dieci anni aveva suonato in diversi gruppi rock. Aveva sognato di entrare nei primi Metallica, come bassista: «Ero un grandissimo amico di Lars Ulrich (uno dei due fondatori della band) che mi chiese se volevo suonare nei Metallica quando si erano appena formati. Ma la cosa non funzionò». Funzionò invece che due wrestler notassero il suo fisico mentre si allenava in palestra. Da lì a diventare leggenda è stato quasi un attimo. Tutto e il contrario di tutto come solo nel wrestling, dove Hulk Hogan ha interpretato l’eroe americano nella World Wrestling Federation e il malvagio leader del New World Order nella World Championship Wrestling, a dimostrazione del fatto che lì ognuno recitava un ruolo.
E lui in questo è stato un grande attore, eccellente interprete di lotte finte, di vere botte da orbi — perché solo un orbo poteva credere che quei pugni e calci che avrebbero ucciso un bisonte potessero essere veri. Parlava a slogan, i gesti inconfondibili e ripetuti, l’energia teatrale ed esagerata. Hulk Hogan si strappava le magliette, urlava alle telecamere, aizzava il pubblico, irrideva e minacciava l’avversario. Si girava per reclamare la vittoria e lo sconfitto lo colpiva alle spalle e allora la recita ricominciava. Pugni e gomitate, la presa con le ginocchia e il gomito, volti paonazzi, il salto dalle corde del ring e i corpi che rimbalzavano e rimanevano integri. Mai una goccia di sangue.
Le botte — selvagge ma eque — senza che si facesse male nessuno. Un linguaggio nuovo, a metà tra il cartone animato e il cinema d’azione. Hulk Hogan ha trasformato così un business apparentemente violento in uno spettacolo adatto a persone di tutte le età. Il fenomeno dell’Hulkamania è stato qualcosa di unico nel mondo del wrestling, in grado di generare ieri gadget e oggi meme. Una carriera stellare, al culmine della quale fu scelto da Sylvester Stallone per comparire in Rocky III. E la leggenda narra che avesse mandato all’ospedale tre controfigure. Vero o falso? Il solito dilemma.
Il surplus italiano di questo fenomeno globale era il commento del wrestling affidato a Dan Peterson — la leggenda del basket — che rendeva quello sport per noi così alieno, ancor più marziano e dunque irresistibile. Peterson era l’americano che ha sempre fatto finta di non parlare italiano perché così era più pittoresco e dava a quello spettacolo una voce da comiche che ancor di più faceva capire che lì, in quei colpi, non c’era niente di tragico.
Tutto finto, ma non l’usura del corpo a cui forse Hulk Hogan ha chiesto troppo, sia quando si trattava di pompare i muscoli sia per quella lotta così ginnica su un fisico da armadio. Nel corso della sua carriera si era dovuto sottoporre a 25 operazioni per i danni provocati da una vita passata su un ring, il corpo segnato in maniera indelebile: era alto due metri, ma per i problemi alla schiena e le conseguenti operazioni aveva «perso» per strada 8 centimetri. Lo aveva raccontato lui stesso: «Ho ginocchia finte, fianchi finti, la schiena piena di metallo, così come parte della mia faccia». Schiacciato dalla sua stessa fama.
Fuori dal palco non si era negato nulla: un sextape con la moglie del suo migliore amico (una performance ben remunerata, il sito che lo diffuse gli aveva dovuto risarcire 30 milioni di dollari), ma anche il licenziamento dalla WWE perché in quel video si lasciava andare a frasi razziste sui neri, compreso il fidanzato della figlia. E non aveva stupito la sua ultima decisione, quella di schierarsi apertamente per Trump. Del resto entrambi hanno condiviso la stessa visione del mondo: la vita vissuta come un ininterrotto show.
25 luglio 2025 ( modifica il 25 luglio 2025 | 07:41)
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