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Redazione Milano
Il patriarca di Gerusalemme dei Latini e cardinale Pierbattista Pizzaballa racconta la tragedia della guerra e il ruolo della Chiesa: «Non abbiamo mai pensato di fuggire»
«I processi di guarigione richiederanno moltissimo tempo, sempre a condizioni che finisca la violenza: la fine della guerra e di questa carneficina inaccettabile non segnerà la fine di tutto». Così il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini, intervistato dalla Provincia pavese, commenta la drammatica situazione in Terra Santa, dove il conflitto continua a seminare morte e distruzione. «La fede non risolve i problemi, è chiaro, ma dà la possibilità di vivere dentro a queste situazioni con uno spirito diverso».
Dalla parrocchia di Gaza, dove anche la Chiesa cattolica è finita sotto le bombe, Pizzaballa parla con lucidità e dolore: «Non abbiamo mai pensato di andarcene, anche perché la gente non saprebbe dove andare. Per molti partire significherebbe morire: ci sono anziani, disabili, persone malnutrite. Qui si vive alla giornata». Nel cuore del conflitto, la preoccupazione più grande è umanitaria: «I nostri riescono ancora a mangiare qualcosa, ma vitamine e proteine sono scomparse. Fare chilometri a piedi sotto il sole vuol dire morire. Resteranno lì». Il cardinale denuncia l’aggravarsi della crisi e l’inazione diplomatica: «Mi pare che manchi la fiducia da entrambe le parti. Spero che la comunità internazionale, in particolare gli Stati Uniti, faccia pressione per ottenere un compromesso. Una pace perfetta non esiste, ma bisogna arrivare a qualcosa di accettabile».
Nel frattempo, l’escalation militare avanza: «Sappiamo da settimane che vogliono fare a Gaza City quello che è stato fatto a Rafah. È un piano incredibile e ingiustificabile. Non ci sono più ragioni per una cosa del genere». Pizzaballa riflette anche sulle ferite profonde che questa guerra lascerà: «La guerra non è la fine del conflitto. Resteranno sentimenti di odio, di vendetta, di ira, che segneranno entrambe le popolazioni. I processi di guarigione richiederanno moltissimo tempo».
Nel giorno dell’Assunzione ha detto: «La fine della guerra non segnerà la fine delle ostilità e del dolore. Dovremo ancora per molto tempo avere che fare con questa situazione». Quanto al ruolo della Chiesa, non ha dubbi: «Il nostro compito è richiamare tutti all’umanità. Non viviamo a compartimenti stagni: se chiudi gli occhi su ciò che accade dentro e fuori dai confini, perdi l’umanità». Pur citato in passato tra i possibili papabili, minimizza: «Se uno si sente pronto per il pontificato, non è adatto. È qualcosa che va oltre le possibilità umane».
La Chiesa oggi vive un tempo di trasformazione: «È finito un modello di Chiesa. Il cristianesimo tradizionale è più fragile. Ma non dobbiamo avere paura di quello che finisce: siamo chiamati a costruire qualcosa di nuovo, a dire una parola chiara, propositiva». Infine, una riflessione sulle vocazioni: «Mancano famiglie stabili. Un giovane non lascia tutto se non vede qualcosa che lo appassioni. C’è bisogno di più passione da parte delle istituzioni ecclesiali».
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26 agosto 2025
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