di
Benedetta Moro

Il figlio del grande critico d’arte: «Niente baci, ma racconti. Conservo le sue scarpe. Eredi? Solo parodie»

Ha la voce roca come quella del padre, profonda, inconfondibile, ma con un timbro più giovane. E quello sguardo che cerca sempre qualcosa da capire, da collegare, da raccontare. Sebastiano Daverio, 39 anni, figlio del grande critico d’arte Philippe scomparso nel 2020, si presenta con una t-shirt grigia, muscoli allenati, sneaker colorate. Nessun gilet, nessun papillon.

«Mio padre non ha mai indossato nulla di sportivo. E io, al contrario, non avrei mai messo quelle sue scarpe di cuoio con i chiodi sotto. Le ho provate: si scivolava. Non capisco come facesse! Però ne conservo qualche paio. Per affetto». Due stili diversi, quasi opposti. Ma non una frattura. Semmai, una libertà reciproca. «È stato lui a lasciarmi essere ciò che volevo. Solo su una cosa mi ha indirizzato».



















































Che cosa?
«La formazione del gusto. Voleva che sapessi riconoscere il bello, viverlo e poi individuarlo ovunque».

Possibile, null’altro?
«In realtà, sì. Mi diceva: “Non è grave non sapere. È grave non voler sapere di più”».

Con i suoi programmi era molto seguito. Ha un erede?
«Ci sono esperti preparatissimi che parlano difficile per mostrarsi competenti. Lui invece voleva solo spiegare ciò che aveva capito. E oggi c’è chi lo imita sui social, anche nel look: ma rischia la parodia».

Beh, nemmeno lui usava un linguaggio accessibile a tutti…
«Ma parlava con chiunque».

Che rapporto aveva con Sgarbi?
«Molto buono. Vittorio è stato affettuoso con me quando mio padre è morto. In genere non lavoravano insieme. Una volta Sgarbi intervenne via telefono a una trasmissione di Philippe: mio padre preferiva così, perché Vittorio arrivava sempre in ritardo».

Philippe papà e critico d’arte.
«Era lo stesso uomo, non portava maschere».

Due aggettivi per descriverlo.
«Gioviale. Ma anche severo».

Perché?
«Credo avesse ricevuto un’educazione altrettanto rigida. Aveva perso il padre a 18 anni. Andò dai Gesuiti. Lì era obbligato a giocare a calcio a -8 gradi con un pallone di stracci. Da quel momento odiò il calcio. Il “premio” per le escursioni era una Gauloises. Iniziò a fumare a 9 anni. L’odore di quelle sigarette oggi mi ricorda lui».

Con lei com’è stato?
«Rigido, ma con equilibrio. Quando andavamo a cavallo diceva: “Se cadi, non piangere”. Oggi lo dico a mio figlio».

Papà era presente?
«Era molto impegnato ma riusciva comunque a trovare del tempo, sì. Quando mi aiutava nei compiti, spesso i suoi collegamenti uscivano dal programma scolastico. Per questo a volte non prendevo un gran voto, ma a me interessavano le curiosità, non imparare tutto a memoria. Per me era una Wikipedia ambulante: rispondeva a tutte le mie domande».

Parlava sei lingue.
«Aveva una memoria pazzesca: leggeva una pagina e se la ricordava. E poi era cresciuto in un luogo particolare, l’Alsazia».

Com’era arrivata lì la famiglia?
«Mio nonno paterno era un costruttore di Casciago, nel Varesotto. Vinse il bando per le case dei dipendenti Renault. Poi rientrarono in Italia».

Il suo divertissement?
«Le auto d’epoca. Era una passione comune. Passava le notti a cercare annunci online. Trovò una Jaguar a Roma. Lasciò un acconto di 5.000 euro. Il venditore fu arrestato il giorno dopo: era il presidente di una squadra di calcio finito nei guai. Non vedemmo mai né auto né soldi».

Essere «figlio di» è stato un peso?
«A volte. Di recente, a Trieste, dove ho presentato una mostra, mi è stato riferito che alcuni commentavano: “Non è detto che sappia solo perché è il figlio di Daverio”. Poi però hanno apprezzato il mio lavoro».

Entrò alla Bocconi a 16 anni.
«Era lo studente più giovane. Aveva fatto la maturità francese e anche la “primina”».

Si è mai pentito di non aver concluso gli studi universitari?
«No. Ci scherzava su. Gli diedero poi la laurea ad honorem».

Che cosa lo appassionava?
«L’antiquariato. A 20 anni iniziò a commerciare. Aprì gallerie a Milano e New York».

Capalbio, anni ‘70
«All’inizio ci andava. Poi, quando arrivarono i radical chic, scappò».

Un ricordo in spiaggia?
«Vede una bancarella, dice al venditore: “Belli i suoi vestiti, ma a me piacciono i pantaloni che indossa lei”. Glieli lavò e mio padre li comprò».

Fu assessore alla Cultura con deleghe aggiuntive, nella giunta Formentini.
«Il Corriere lo intervistò, chiedendogli cosa ne pensasse di Bossi. Rispose: “Vi seppellirà tutti con un rutto!”. Era ironico, ma scoppiò la polemica. A quel punto intervenne l’editore Mario Spagnol che, come mio padre, non c’entrava nulla con il mondo leghista, ma che era amico del futuro sindaco Marco Formentini. Fece da tramite dopo il primo ballottaggio per chiedere a mio padre se volesse fare l’assessore alla Cultura. A mio padre non interessava che il sindaco fosse leghista, ma gli piaceva di più il fatto che fosse un europeista».

I primi giorni in giunta.
«Difficili. A Milano ci fu la strage di via Palestro: una bomba distrusse il Padiglione d’Arte Contemporanea. Morirono cinque vigili del fuoco. Mio padre si occupò subito del recupero dell’edificio. Allora intervenne economicamente anche Bernardo Caprotti, patron di Esselunga. Quando arrivarono i soldi dall’assicurazione, papà li destinò a delle scuole del Sud».

Una storia poco nota.
«Sì. E invece si parla solo della polemica sulla Sicilia».

Il «io non amo la Sicilia» e altro andati in onda sulle Iene?
«Stava già male. Fu esasperato da un giornalista che lo tampinò tutto il giorno e montò solo certi pezzi. Mio padre invece adorava la Sicilia, insegnò all’Università di Palermo per 15 anni».

Ci fu poi la polemica per quel premio al Comune di Bobbio…
«Era una trasmissione tv: il borgo dei borghi. Lui era in giuria. Lo accusarono di favoritismo, perché aveva la cittadinanza dello stesso paese. Ma ce l’aveva anche altrove. A volte lo pagavano così».

Un altro ricordo del periodo da assessore?
«Il restauro di Palazzo Reale, il salvataggio del Piccolo Teatro che volevano diventasse un parcheggio, i capodanni in piazza del Duomo con feste pazzesche. Istituì la pista di pattinaggio a Natale. Prese spunto da New York. Ancora oggi viene installata».

Come tiene viva la sua memoria?
«Con rispetto. Tra le varie cose, ho creato Officina Daverio, un canale YouTube dove carico i suoi interventi. Anche se a volte leggo commenti un po’ antipatici».

Ad esempio?
«“Un uomo così dotto, come faceva a stare con la Lega?”. Mio papà non è mai stato iscritto al partito ma, come diceva, all’epoca la Lega era una roba un po’ rivoluzionaria. E uno, quando partecipa alla rivoluzione, mica sa dove va a finire».

Ha scritto lei la sua pagina Wikipedia?
«Ci ho provato, ma viene spesso manipolata. Gente che aggiunge cose per farsi pubblicità o ne cancella altre».

Com’è oggi il suo mondo senza di lui?
«Più stupido. Nessuno ha il suo spessore. E adesso le sue risposte non le ho più».

Era affettuoso?
«A modo suo. Niente baci o carezze, ma condivideva tempo e racconti».

Avevate mai lavorato insieme?
«Sì. Nei documentari, nelle trasmissioni: io filmavo e curavo i fondali. A Striscia la notizia lo aiutavo con la programmazione».

L’ultimo ricordo?
«È quella sensazione rara di poter avere una risposta a qualsiasi domanda, solo perché lui era lì. Una forma di sicurezza che oggi, semplicemente, mi manca».

27 agosto 2025