Alla Mostra del Cinema di Venezia di quest’anno molti dei titoli in concorso e fuori concorso si assestano ben oltre le due ore, con alcuni film che sfiorano o superano le tre. La grazia di Paolo Sorrentino – per citare un esempio – dura due ore e undici, Frankenstein di Guillermo del Toro due ore e ventinove, Silent Friend di Ildikó Enyedi due ore e venticinque, Orphan di László Nemes due ore e dodici. Non si tratta di casi isolati, ma l’allungarsi della durata delle pellicole è il riflesso di una tendenza ormai consolidata.
I numeri lo confermano. L’Economist ha condotto un’analisi su oltre centomila lungometraggi distribuiti a livello internazionale a partire dagli anni Trenta, gli albori dell’età d’oro di Hollywood. Osservando i dati contenuti nel database cinematografico IMDb è emerso che la durata media delle produzioni è aumentata di circa il trentadue per cento, passando da un’ora e ventuno minuti negli anni Trenta a un’ora e quarantasette minuti nel 2022. Un trend riscontrato soprattutto tra i blockbuster: per i dieci titoli di film più recensiti su IMDb la durata media si è attestata a circa due ore e mezza nel 2022, quasi il cinquanta per cento in più rispetto agli anni Trenta.
Le uscite più recenti degli ultimi anni confermano il trend. Spider-Man: No Way Home (2021) arriva a due ore e ventotto, Avatar – La via dell’acqua (2022) supera le tre ore, Oppenheimer (2023) di Christopher Nolan arriva a tre tonde. The Substance (2024) di Coralie Fargeat dura due ore e venti, Vermiglio di Maura Delpero, due; Queer di Luca Guadagnino, due ore e quindici.
Nonostante questi dati possano giustificare una nuova consolidata tendenza, non è ancora chiaro quali siano le motivazioni che hanno spinto registi e case di produzione a pensare che fosse una buona idea tenere spettatrici e spettatori incollati allo schermo per molte ore di seguito. Una delle spiegazioni possibili riguarda i rapporti interni all’industria: se in passato produttori come Harvey Weinstein – soprannominato “Harvey mani di forbice” per la sua capacità di tagliare senza esitazione e imporre ritmo alla narrazione – avevano un ruolo decisivo nel contenere la lunghezza delle pellicole, oggi la bilancia pende più verso i registi, che se minacciati da tagli alla loro opera posso facilmente ripiegare sulle piattaforme di streaming, dove in assenza di costrizioni temporali godono di una maggiore libertà creativa. Ne è un esempio Killers of the Flower Moon, il thriller di Martin Scorsese da tre ore e ventisei che dopo la sua uscita nelle sale nel 2023 ha fatto il suo debutto su Apple Tv, ed è ora disponibile anche su piattaforme come Now o Prime Video.
Altri analisti cercano spiegazioni guardano invece al passato dei media. In un articolo pubblicato su CNN, la giornalista Harmeet Kaur ricorda come negli anni Cinquanta, con la televisione che entrava nelle case, gli studios furono spinti a competere con produzioni epiche, che segnassero una netta distinzione tra il cinema e la televisione. La situazione cambiò poi negli anni Settanta e Ottanta con l’arrivo delle videocassette. Con il loro avvento «Hollywood iniziò a fare pressione affinché i film fossero sufficientemente brevi da poter essere registrati su una normale cassetta VHS», spiega nell’articolo il media and entertainment analyst Daniel Loría.
Il vero spartiacque, secondo altri osservatori, è da identificarsi nel 2009, anno dell’uscita di Avatar, il film di James Cameron. Con una durata di due ore e quarantadue, il film riscosse un enorme successo, dimostrando all’industria cinematografica che il pubblico non solo era ancora interessato al cinema, ma era anche disposto a rimanere in sala per ore. «Mentre piattaforme di streaming come Netflix iniziavano a crescere in popolarità – ricorda su CNN Erik Anderson, fondatore e caporedattore di AwardsWatch – l’enorme successo commerciale di Avatar fece capire ai registi e agli studi cinematografici che le stravaganze spettacolari e ricche di effetti visivi potevano motivare gli spettatori a lasciare la comodità delle proprie case».
Da lì in avanti, i franchise hanno imposto nuovi standard, con la speranza che nuovi film “evento” – spettacolari e prolungati – attirassero il pubblico verso il grande schermo. Ed è proprio quello che è successo con Avengers: Endgame (2019), che con le sue tre ore di supereroi e stravaganza ha registrato un incasso record da 2,79 miliardi di dollari in tutto il mondo, superando Avatar.
Per il pubblico abituato a universi narrativi complessi e interconnessi, le due ore sembrano non bastare più. Come sintetizza l’analista Loría su CNN: «Se vai in sala è probabile che tu stia per vedere un film Marvel o DC che deve collegarsi a tre serie e due franchise, e inevitabilmente dura più di due ore e mezza». Il risultato è che oggi i film non si limitano a raccontare una storia. Sono una vera e propria sfida per gli spettatori, ma anche per l’industria, che deve convincerli che ogni minuto in più passato in sala vale il prezzo del biglietto, e che soprattutto vale la pena di essere usciti di casa.