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Nella Sala Grande, durante l’inaugurazione di ier sera della Mostra del Cinema di Venezia, pochi – o forse soltanto io, ché per certe cose ho l’occhio clinico – hanno notato un dettaglio sottile ma significativo nel nuovo film di Paolo Sorrentino, La Grazia. Le auto di Stato che trasportano il Presidente della Repubblica, ovvero Toni Servillo, e la sua scorta non sono italiane, come vorrebbe non solo la prassi istituzionale ma anche una certa idea del decoro politico: sono le cinesi BYD, inserite con discrezione nel cuore del racconto.
È probabile che dietro la loro presenza vi sia una forma più o meno esplicita di product placement. Ma ciò che conta, al di là della genesi materiale della scelta, è il significato che essa assume nel contesto della rappresentazione. Perché il cinema – almeno quello che in Italia ancora si assume come spazio di pensiero oltre che di racconto – ha da sempre il potere di registrare, con anticipo rispetto ad altre narrazioni, le mutazioni silenziose dell’ordine simbolico.
Far salire il Presidente della Repubblica su un’auto cinese, in un film che riflette sulla solennità e sulla fragilità del potere, non è un atto di lesa maestà, né tantomeno un vilipendio dell’identità nazionale. È, più semplicemente, il segnale che sta prendendo forma una nuova grammatica della rappresentazione in cui anche i simboli più consolidati – l’auto, il cerimoniale, il linguaggio visivo della sovranità – possono cambiare senza che nessuno senta più il bisogno di difenderli.
Ma al di là del significato culturale che questa scelta veicola, è difficile non intravedervi anche un’intenzione strategica: l’aspirazione, legittima, di un costruttore globale a inserirsi con continuità nei territori simbolici che in Italia definiscono l’appartenenza collettiva. Prima il calcio, con la partnership nerazzurra che ha sancito lo sbarco nel cuore emotivo della cultura popolare. Ora il cinema, con l’ingresso silenzioso – e per questo ancora più efficace – nella narrazione dello Stato. Il marchio cinese, così, si insinua nel tessuto della rappresentazione con la pazienza di chi sa che il riconoscimento più profondo non passa dalla dichiarazione, ma dall’assimilazione. Ed è proprio in questa ambizione mimetica – nel farsi presenza ordinaria senza più bisogno di commento – che si rivela il progetto più ampio: diventare nuova normalità.
Che in Sala Grande nessuno abbia colto quel dettaglio non sorprende. Le rivoluzioni simboliche più profonde non si annunciano: si insinuano, si stratificano, si rendono evidenti solo quando è troppo tardi per discuterle. E quando finalmente le riconosciamo, sono già diventate parte della nostra normalità.
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