Laguna, di Sharunas Bartas

Un film autentico e intimo, il racconto di una guarigione lenta portato avanti da una ibridazione libera e curiosa tra i generi del discorso cinematografico. VENEZIA82. Giornate degli Autori




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LA SCUOLA DI DOCUMENTARIO di SENTIERI SELVAGGI


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Sulle coste del Messico un padre e una figlia (rispettivamente Sharunas Bartas e Una) viaggiano per ripercorrere la vita e la memoria di Marija, primogenita scomparsa prematuramente. È un viaggio fatto di attimi sospesi, che il regista e interprete racconta uniformando la sua voce a quella del personaggio. Questa è già dalla partenza una scelta indubbiamente interessante, pensando a come il regista lituano calcifica il racconto momento dopo momento, mantenendo una notevole leggerezza durante tutto il tempo del racconto. Laguna è ambientato in una riva della costa pacifica messicana, e dal primo istante è lampante il modo in cui l’ambientazione viene usata a mo’ di correlativo oggettivo, quindi per parlare attraverso le immagini dello stato di salute dei due protagonisti – provati dal durissimo lutto familiare. 

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L’intenzione ricorrente di Bartas però sembra essere anche quella di raccogliere questa oggettivazione per ampliare un discorso più profondo. Nel modo in cui avvicina costantemente lo sguardo alla materia che lo circonda – che si tratti di materia vegetale, animale o umana – emerge una volontà di comprendere il funzionamento delle cose, e forse anche della vita. Perché il durissimo lutto che Bartas racconta con Laguna (che qui viene interiorizzato e processato come una vera e propria guarigione) emerge e torna durante tutti i momenti nei quali il film oscilla tra documentario osservazionale e finzione. Nel mettere a fuoco così a fondo le cose del mondo appare inevitabile non notare le reazioni alle azioni che vediamo: ogni elemento cambia e si trasforma, cambiando a sua volta anche tutto ciò che lo circonda. Bartas sembra aver sperimentato una sorta di “materialismo naturalista”.  

Nella costruzione dell’intreccio Laguna si alterna tra segmenti di osservazione pura e dialogo tra padre e figlia. In questo costante oscillare da una parte all’altra è evidente una costruzione poco calcolata dei tempi, anche se verrebbe da chiedersi quanto e perché il calcolo debba rientrare in un’operazione così articolata – e intima– che Bartas mette in piedi. Laguna è speciale anche per questo motivo: è libero e fluttuante, specialmente quando si perde nell’ibridazione narrativa tra dialogo, immagine pura, lettera d’addio e finzione schematicamente programmata. Dalla totalità del caos in cui il film rischia di perdersi, emerge invece un atto concreto di apertura lodevole. Una confessione a cuore aperto.

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La valutazione del film di Sentieri Selvaggi

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