di
Carlo Verdelli
La missione degli Esteri andata a vuoto, il sostegno dei Regeni, il nuovo appello della madre Armanda Colusso da Venezia: «Cosa penserà mio figlio del suo Paese?»
La domanda è se stiamo facendo abbastanza per Alberto Trentini e la risposta è no. Come se la scomparsa di un italiano, preso in ostaggio dal governo venezuelano da 288 giorni e chiuso in una cella infame senza una motivazione neanche fasulla, non sia un problema nazionale, e a questo punto, dopo più di nove mesi, un’urgenza, se non una vergogna.
La madre Armanda lancia dal Festival del cinema di Venezia un altro appello perché lo si faccia tornare a casa. L’appello rimbalza su giornali e siti, ruba forse cinque minuti d’attenzione a qualche attore o regista, ma poi resta lì, come tutti quelli che l’hanno preceduto, come l’interessamento attivo e reiterato della famiglia Regeni, che conosce sulla propria pelle quel tipo di disperazione. L’avvocato Alessandra Ballerini, che ora si occupa di salvare Alberto, è la stessa che da nove anni lavora per rendere giustizia a Giulio.
Il Lido di Venezia non era una passerella scelta a caso. Alberto è di lì, si è laureato in Storia a Ca’ Foscari, dopo il servizio civile ha sentito che il suo posto nel mondo era quello di dare una mano a chi ne ha bisogno, si è specializzato come operatore umanitario con un master a Liverpool e uno in sanificazione dell’acqua a Leeds, ha accumulato decine di esperienze sul campo (Ecuador, Bosnia, Etiopia, Paraguay, Nepal, Grecia, sei mesi in Perù nel 2017 ad assistere migliaia di famiglie colpite dalle inondazioni). Non è tipo da centri sociali, come è stato scritto; la famiglia di cui è figlio unico, mamma Armanda e papà Ezio (che non è in salute), è molto riservata e se ha una simpatia politica è in direzione cattolica. Lui ha compiuto 46 anni il 10 agosto in quella fogna di galera. In una delle due uniche telefonate a casa che gli sono state concesse ha chiesto come stava il padre, di non preoccuparsi e di ricordare di non usare la macchina perché prima bisogna prenotare la revisione. Si sta facendo abbastanza per liberare un italiano così, una persona così?
Trentini era in Venezuela da ottobre, coordinatore di una ong francese, «Humanity and Inclusion», premio Nobel per la pace 1997, per assistere persone con disabilità, nelle periferie estreme di un Paese abbandonato alla miseria. Il 15 novembre è stato arrestato a un posto di blocco mentre viaggiava da Caracas a Guasdualito. Da allora è scomparso dentro la prigione El Rodeo di Caracas, il suo arresto è stato confermato solamente due mesi dopo, non ha mai potuto ricevere una visita di avvocato o funzionario del suo Paese, non ha mai ricevuto un’accusa formale sul perché l’hanno preso e portato via.
Racconta un suo ex compagno di cella svizzero, liberato da poco: «Hai 45 minuti d’aria tre volte la settimana. Le guardie stanno sempre a volto coperto, capaci di ridere con te e un secondo dopo di torturarti». Lo svizzero è stato rilasciato, come una decina di americani che stavano nello stesso posto e nelle stesse condizioni, come due italo argentini, Margarita Assenza e Americo De Grazia, lasciati uscire il 10 agosto. Alberto no, lui è un caso molto particolare. Il ministro degli Esteri Tajani ripete che ce ne sono tanti altri di prigionieri. Vero, ma Trentini non è come gli altri. Tra quelli in carcere o presi in ostaggio in Venezuela, è l’unico italiano incensurato, non censurabile, e soprattutto «puro», cioè con soltanto la nostra cittadinanza, e come tale preziosa merce di scambio. Da quando è stato rieletto Maduro, nel luglio scorso, oltre 60 cittadini stranieri sono stati catturati in prospettiva di scambi sul piano diplomatico.
Il nostro è uno dei Paesi che non riconoscono la legittimità del nuovo governo di Caracas, ma forse la strada per aprire uno spiraglio non è ribadire, le rarissime volte che il governo va sull’argomento, che «Maduro è un dittatore e noi coi dittatori non trattiamo». Primo, perché non è vero, e ricordiamo la schiettezza dell’ex presidente del Consiglio Draghi a proposito di Erdogan, e la lista è allungabile a piacere, da Al Sisi a Putin.
Secondo, perché l’obiettivo di convincere il Venezuela a ridare la libertà a un italiano innocente dovrebbe suggerire qualche accortezza diplomatica che finora è mancata. Disattenzione gravissima, permessa anche da un’opposizione che non si è fatta carico di Trentini come avrebbe dovuto e da un menefreghismo generale sulle sorti di un giovane uomo per bene.
Vero che ad aprile, dopo due lettere in cui le si chiedeva un incontro, la premier Meloni ha telefonato alla madre di Alberto per farle sentire vicinanza, sia pure con qualche mese di ritardo. Vero che a fine luglio è stato nominato Luigi Maria Vignali come inviato speciale per gli italiani in Venezuela (200 mila), inclusi i «prigionieri politici», ha detto il suo superiore Tajani, «che non hanno commesso a nostro parere reati». Vero anche che Vignali, come da compito assegnato, è subito partito per Caracas, accolto con grande favore dalla stampa locale, ma siccome nessuna autorità ha ritenuto di riceverlo l’inviato se n’è tornato in Italia in attesa di sviluppi. Magari una telefonata preparatoria, per esempio del viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli, avrebbe aiutato. È comunque indispensabile riprendere la missione di Vignali al più presto, preparandola con più astuzia, mostrando attenzioni verso un governo «non amico» pur di ottenere una soluzione positiva a un caso che non si semplificherà da solo col passare del tempo.
No, non stiamo facendo abbastanza per il «caso» Trentini. Non stiamo facendo abbastanza come cittadini, come mass media, come governo, come politica, come istituzioni. E il problema è che questa evidenza non ci turba minimamente. Come sono già volate via nello scirocco lagunare le parole di mamma Armanda: «Mi chiedo spesso: cosa penserà questo ragazzo del suo Paese che per mesi l’ha abbandonato e non si è attivato abbastanza per liberarlo?». E ancora: «Vorrei gridare la mia disperazione e che il mio grido oltrepassasse l’Oceano per arrivare in Venezuela da chi tiene prigioniero Alberto». Ecco, rileggiamo queste poche parole per 288 volte, piano piano, tante volte quanti sono i giorni che il cooperante veneziano Alberto Trentini è stato rubato alla sua terra. Con la speranza che si compia il miracolo di un’Italia che si ridesta da un ingiustificabile torpore e trova la forza di premere e premere e premere per ridare la libertà a un italiano vittima di un sopruso, non come un risarcimento a una famiglia angosciata ma con un dovere di Stato da portare a compimento il prima possibile.
30 agosto 2025 ( modifica il 30 agosto 2025 | 22:28)
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