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Valerio Cappelli, inviato a Venezia
Nel «Mago del Cremlino» in gara a Venezia straordinaria somiglianza tra il divo e il leader. «Nessuno era sicuro in Unione Sovietica e nessuno lo è in Russia»
VENEZIA Jude Law è impressionante per la capacità di incutere paura col suo sguardo quasi dimesso, il gelo del potere che non ha nulla da mostrare e tutto da nascondere. La postura è identica a quella di Putin, e così i capelli carota che si possono quasi contare. Parliamo del film, in gara all’82a Mostra del Cinema di Venezia, Il mago del Cremlino di Olivier Assayas, sul tiranno di Mosca dal 1990 al 2013.
Sulla somiglianza Jude Law dice: «Abbiamo cercato tratti familiari su di me ma non dovevo personificare Putin e nascondermi in una maschera prostetica, anche se è straordinario cosa può fare una parrucca. La parte più complessa è il suo volto pubblico, che lascia trapelare poco. Avevamo molto materiale d’archivio, ho costruito un Putin leggermente rigido, un po’ goffo, a disagio nel parlare, facendo tesoro della scena iniziale, quando dice (mentre prende il potere), che fino allora aveva parlato in pubblico una o due volte e non era stato un successo».
Jude Law, 53 anni, già al Lido lo scorso anno, l’attore britannico che ha rinverdito la vecchia cara Hollywood del conterraneo Cary Grant (il nome è un inchino a Hey Jude dei Beatles dei genitori insegnanti), teme ripercussioni nel restituire Putin, che non ha un particolare senso dell’umorismo? «No, non ho cercato controversie, mi sono abbandonato al regista».
I nomi sono veri, da Gorbaciov a Eltsin e Putin, ma non sempre, per esempio si cambia quello dell’oligarca Khodorkovsky, considerato l’uomo più ricco della Russia, arrestato durante l’ascesa al potere di Putin. Il personaggio di Baranov (l’attore Paul Dano) è fittizio, ma basato su Vladislav Surkov, scienziato, regista teatrale, produttore di reality show in tv, ritenuto l’architetto dell’ascesa al potere dello zar, lo spin doctor dal volto banale che «manipola tutto modellando discorsi, fantasie, percezioni» e si insinua nella testa dei connazionali, nelle loro rabbie, desideri, risentimenti, nella voglia di rivincita.
È lui Il mago del Cremlino che, tratto dall’omonimo libro di Giuliano da Empoli, dà il titolo al film di Assayas, il suo più ambizioso (e lungo: 156 minuti, uscirà il prossimo anno per 01). Dice il regista francese: «Dietro ogni parola di Baranov c’è un disegno». Il regista fa un po’ come Putin, cerca di confondere le acque e dice che «non è un film sull’ascesa di un uomo né sulla forza con cui viene imposto il potere o ancora sulla reinvenzione di una nazione moderna e arcaica allo stesso tempo, nuovamente soggiogata dal totalitarismo. È una riflessione sulla politica moderna ed ha risonanze universali, ciò che la politica può diventare riguarda tanti Paesi. Certo oggi spaventa quello che succede e non abbiamo ancora visto una vera reazione a quello che abbiamo sotto gli occhi».
Giuliano da Empoli dice che si parte «dalle radici del potere di Putin, tutto ciò che è avvenuto dopo è una conseguenza di quella violenza originaria». Lo affianca nella sceneggiatura lo scrittore guru Emmanuel Carrère (si ritaglia anche un mini cameo) che nel film definisce Putin «l’uomo selvaggio del KGB, atletico, fa judo e va a caccia, viene dal nulla, incarna la nuova razza politica, il custode dello Stato che dà stabilità e sicurezza». «Putin – dice Assayas – è un manipolatore che con le sue strategie ridefinisce il concetto di politica moderna. Dice che gli americani hanno inventato l’algoritmo: noi lo useremo meglio».
Nel cerchio magico c’è l’errore di Berezovsky, l’oligarca amico sparito a Londra, una delle tante morti misteriose, voleva mettersi alla pari con Putin e a Surkov presenta lo zar come «un uomo modesto». Surkov era il nuovo Rasputin che asseconda Putin, teorico delle democrazie occidentali fake che antepone il potere al denaro del consumismo, «non c’è una linea di partito, solo fil di ferro». Il film mostra come disegnò la nuova Russia in cerca di riscatto e di ristabilire la sua integrità, dopo le umiliazioni, dopo il crollo dei muri, dopo che Gorbaciov voleva sostituire la vodka col latte. Quando Surkov fu messo da parte al Cremlino, rimosso nel 2020, si moltiplicarono le leggende: chi disse che si era rifugiato in un monastero greco, chi a Ibiza, imbottito di cocaina. Ksenia, dice Alicia Vikander che la interpreta, per lui incarna «la libertà in un mondo maschile, la possibilità di fuga, lontana dal dominio politico».
La personificazione del Male si svolge nelle enormi sale dorate del potere (ricostruite a Riga), o a ridosso di spettrali filari di betulle imbiancate, mentre scorrono la rivolta cecena, l’annessione della Crimea e il sottomarino nucleare che si inabissa nel Barents, inghiottito come una scatola di latta. «Nessuno era sicuro in Unione Sovietica e nessuno lo è in Russia», dice Assayas. A poco a poco, il respiro della libertà accarezzata negli anni ’90 con Boris Eltsin si spegne. I soldi non sono un salvacondotto per salvare la pelle. «Quel sussulto – conclude il regista – è stato soffocato, scoraggiato, infine schiacciato, lasciando il posto a un regime che assomiglia a quello sovietico, versione 2.0».
31 agosto 2025 ( modifica il 31 agosto 2025 | 16:06)
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