Perché, mentre il personale sanitario pubblico cresce, gli infermieri diminuiscono? È la domanda che attraversa gli ultimi dati ufficiali sul Servizio sanitario nazionale. Secondo Fnopi, la Federazione nazionale ordini professioni infermieristiche, nel 2023 gli infermieri impiegati nel pubblico sono calati di 12.869 unità, nonostante le iscrizioni all’Albo siano aumentate di circa 6 mila. Un segnale che parla di passaggi al privato e di libera professione, spinti da retribuzioni poco competitive e da condizioni di lavoro percepite come più sostenibili altrove.
Fnopi ha analizzato il Conto annuale della Ragioneria Generale dello Stato, che fotografa lo stato degli occupati negli enti del Servizio sanitario. Il quadro è in chiaroscuro: il totale del personale sanitario pubblico cresce, ma il segmento infermieristico arretra. La Federazione collega questa tendenza al fenomeno della “fuga” verso il privato e le attività autonome, una lettura coerente con le evidenze del Rapporto 2025 (dati 2022) realizzato da Fnopi insieme alla Scuola Universitaria Superiore Sant’Anna di Pisa.
Il Veneto è un caso-scuola. Qui gli infermieri risultano tra i più presenti in corsia d’Italia, ma gli stipendi restano sotto media. La regione registra un tasso di assenza del 14%, inferiore alla media nazionale del 16% e penultimo nella classifica delle assenze. Eppure la retribuzione media annua lorda per gli infermieri è di 31.600 euro, al di sotto della media nazionale di 32.400 euro.
“Questi risultati suggeriscono che in alcune regioni potrebbe esserci una maggiore difficoltà nel mantenere il personale presente sul posto di lavoro, o forse un maggiore ricorso a permessi e congedi”, si legge nel Rapporto. Le differenze territoriali sarebbero influenzate da politiche locali, condizioni di lavoro e cultura organizzativa. Dove le assenze sono più basse, potrebbero essere in atto pratiche di gestione del personale più efficaci e un maggiore sostegno ai professionisti.
Il Rapporto rimarca che i 32.400 euro lordi annui medi per gli infermieri in Italia superano di poco la retribuzione media degli impiegati (32.174 euro, fonte Forbes/Osservatorio Job Pricing), ma restano notevolmente sotto la media Ocse del personale infermieristico (circa 39.800 euro). Il divario pesa soprattutto quando si considerano responsabilità e rischi professionali comparabili a quelli dei colleghi di altri Paesi. Le differenze regionali sono nette: – Trentino-Alto Adige: 37.204 euro (vertice) – Emilia-Romagna: 35.857 euro – Toscana: 35.612 euro – Calabria: 29.810 euro – Campania: 27.534 euro – Molise: 26.186 euro (fondo classifica).
Il rapporto infermieri/medici in Italia è mediamente di 2,48. Le regioni con i valori più alti sono Molise (3,19), Veneto (2,96) ed Emilia-Romagna (2,95). Secondo il Rapporto, questi territori “presentano una maggiore dotazione di infermieri rispetto ai medici, indicando una capacità potenziale di offrire cure più assistenziali e personalizzate”. In altre parole, più prossimità, più tempo di assistenza, maggiore continuità di cura.
C’è poi il tema delle posizioni dirigenziali: in media si contano 1,66 dirigenti infermieristici ogni 1.000 infermieri, un indicatore di carenza di figure guida nel sistema. In Veneto il dato migliora a 2,8, ma la distanza rispetto a un assetto manageriale più robusto resta. E senza leadership adeguata è più difficile innovare l’organizzazione, sostenere il benessere dei team e trattenere i professionisti.
Se gli infermieri iscritti all’Albo aumentano ma quelli nel pubblico diminuiscono, la questione non è l’offerta formativa ma l’attrattività del sistema. Retribuzioni, carichi di lavoro, possibilità di carriera e contesti organizzativi fanno la differenza. Finché il settore privato o la libera professione offriranno combinazioni percepite come migliori, la “sottrazione silenziosa” rischia di continuare. I segnali d’intervento – come i fondi veneti per ridurre le disparità interne – vanno nella direzione giusta, ma servono politiche coerenti e stabili per trasformare i numeri in un’inversione di rotta.