Peppinella è diventata bellissima a ottant’anni. Una dea «nonna mediterranea, millennaria, rupestre e zodiacale». Così la descrive suo nipote, lo scrittore Emanuele Trevi, nel suo ultimo libro, Mia nonna e il Conte (da domani in libreria per Solferino), che racconta la storia tra lei e un aristocratico che arriva in Calabria e, per andare dove a un certo punto gli serve per indagare la storia borbonica, il suo diletto preferito, ha bisogno di passare nella tenuta di Peppinella. Si incontrano così questi due ultraottantenni che, giorno dopo giorno, scoprono il piacere di trascorrere il tempo insieme senza nessuna mira, ambizione, seduzione, malizia. Senza mai diventare inseparabili amanti. Senza mai diventare altro che un uomo e una donna che stanno bene insieme, si rispettano, si fanno del bene nel tenersi compagnia.
Intorno a questa storia, Trevi intesse quella del suo sguardo prima di bambino, poi di adulto, su questa coppia unica, sulla casa dei nonni dove gli elettrodomestici si rompono e si aggiustano da soli o forse per intervento di qualche fantasma, su leggende familiari che erano epiche femminili dove i maschi contavano poco perché contavano poco i fatti e molto «la forza di carattere che si trasmetteva di madre in figlia», sulla sorprendente fioritura che ci aspetta quando dalla vita non ci aspettiamo niente perché volge al termine, sulla placidità intensa di quel tempo che soffochiamo nel pretenderlo uguale alla giovinezza, figurandocelo ostaggio di tabù. La bellezza di questo libro odoroso, libero, sollevante sta nel restituire alla vecchiaia la sua quiete attiva, la sua dimissione dal ciclo produttivo, la sua soddisfatta inoperosità, l’accoglienza, l’arte di farsi andar bene quello che ha e capita.
Trevi, conosce la storia di sua nonna e del suo Conte da quando aveva vent’anni. Perché la racconta ora?
«Perché sono arrivato al punto della vita in cui ho relazioni sempre più simili a quella che hanno avuto loro, improntata alla pura gratuità. Le cose riaffiorano nella memoria quando ne capisci il senso».
E lei cosa ha capito?
«Che quelle due persone mi attiravano perché non avevano statuto: erano vicini di casa e passavano il tempo insieme».
Scrive: «tra loro funzionava perché non hanno mai voluto conoscersi».
«Certo. La relazione adesso è una specie di anamnesi. Ma perché? Ma se tu mi piaci, i fatti miei sono fatti miei. Non ti posso pesare nella vita. E non dovresti nemmeno tu. La cosa che più mi ha dato fastidio, sempre, è stato quando una donna mi ha chiesto la testa di qualcuno».
Stava con Salomè?
«Ho incontrato un sacco di donne che mi hanno chiesto di non frequentare le mie ex compagne, e so che è una pratica comune, un’abitudine sia maschile che femminile. Fa parte dell’atto costitutivo di una coppia come la intendiamo e come io l’ho sempre rifiutata. Ho chiuso immediatamente appena mi è stato chiesto di eliminare dalla mia vita amici, amiche, ex. Detesto l’ idea del legame come nuova fondazione. È per questo che il titolo letterario che più mi sta antipatico è La vita Nuova di Dante: perché dovresti offrirti alla persona amata come se non avessi una storia? Ecco, la storia di mia nonna e del suo Conte l’ho raccontata non perché sia un modello (nessuna storia è mai imitabile), ma perché è un esempio stupendo di come si possano stabilire relazioni felici che non implicano sacrifici fondativi. Anche perché sono quei sacrifici che conducono alla violenza. Nel mondo di mia nonna e del Conte invece non c’è l’orizzonte del femminicidio».
Però è un mondo di molti anni fa, e anche incantato.
«Certo, ma se noi non impariamo a stare più lontani dalle persone che amiamo, queste persone diventano delle mamme, degli analisti, delle figure a cui non siamo in grado di rinunciare quando poi non siamo più amati. Io vedo una enorme relazione tra la violenza e l’eccesso di confidenza. Dobbiamo vivere la vita portando avanti la nostra esperienza da soli, confidandone gli aspetti più interessanti, quelli più capaci di sedurre, divertire, commuovere al momento giusto. Il vissuto cosa c’entra con l’amare?».
C’entra se la persona che ami te la metti in casa: chi vivrebbe con un estraneo?
«Credo che anche nella convivenza si debba perseguire un’etica della distanza».
Mi dica la regola numero uno di questa nuova etica.
«La numero uno non la so, dovrei pensarci, ma posso dirle la prima che mi viene in mente: mentire a fin di bene».
Una vecchia regola.
«Tra vecchi siamo. Un’altra: incoraggiare l’autonomia, per esempio aiutando e sostenendo l’accudimento dei figli da parte di singoli. Io sono ammirato e affascinato dalle donne che fanno bambini da sole, perché annullano le famiglie come le abbiamo intese finora: aziende».
Quello che lei trova aziendale, forse è solo un modo di rispondere al bisogno di dare un senso alla propria vita.
«Considerata dal punto di vista individuale, la vita umana è troppo vulnerabile. Dimentichiamo che è la vita di una specie, quindi ognuno di noi è un piccolo tassello, niente di più. Il significato è una presunzione, un’illusione che ci dà solo sofferenza perché non trova, non può trovare riscontro».
C’è un’alternativa?
«Certo. Io trovo sempre più facile vivere seguendo il filo d’oro del piacere e ricordando che tutto quello che si ha è un prestito. Mentre le parlo, guardo un tramonto in un posto dove torno ogni anno, sul mare, in Calanbria, e la sola cosa veramente lucida da dire è che non è affatto detto che il prossimo anno lo farò. Potrebbe succedermi qualcosa di terribile che me lo impedir. E questo non mi crea malinconia ma, piuttosto, una specie di intensità che cresce negli anni. La consapevolezza della morte non mi imbrunisce, anzi. Alla fine della Tempesta di Shakespeare, Prospero dice: «Ogni tre pensieri, penserò alla morte”. Significa: adesso mi dedicherò alle cose supreme, quelle veramente importanti. Che dilettante, Shakespeare: bisogna pensare alla morte tre pensieri su tre! Fai l’amore? E devi pensare che può essere l’lutima volta».
Scusi ma è terribile. Non sarà di quelli che credono che “Si deve vivere ogni giorno come fosse l’ultimo”?
«Quella è una inutile enfatizzazione. Io direi, invece, che si deve vivere ogni piacerere come se fosse l’ultimo. Fare come i fiori che di sera rilasciano più profumo. Spremere la massima piacevolezza dalle cose è possibile solo pensandoci ospiti e non padroni delle cose stesse. Se pensi che tutto è reversibile e nulla ti è dovuto, tutto acquisisce un sapore particolare e, soprattutto, capisci che non puoi fare niente contro il tempo: puoi solo creare l’illusione di rallentarlo».
Perché scrive che il nonnarcato è meglio del matriarcato?
«Perché l’ho vissuto. Io detesto il patriarcato e sono profondamente convinto che vada debellato del tutto, ma sono altrettanto convinto che non debba essere sostituito con il matriarcato: noi dobbiamo depotenziare le divinità, non cambiarle. Per la Grande Madre si fanno sacrifici, la nonna invece non chiede niente, al massimo ti dice di stare attento a non mangiare troppi gelati mentre ti dà i soldi per comprarli. Al cocco di mamma, un ridicolo uomo convinto di essere un vincente, preferisco con tutto me stesso un cocco di nonna, che è uno che non pretende null ed è allevato da una donna che è stata madre ma che non farà con lui gli stessi errori che ha fatto con i suoi figli».
Una definizione di nonna?
«Una mamma che non è pericolosa».
Che pensa dei maschi di Phica e MiaMoglie?
«Leonard Cohen canta in Dance to the end of love, “fammi vedere la tua bellezza quando se ne saranno andati i testimoni”. Questo è un uomo. Uno capace di rispettare il dono di una donna che gli si mostra nuda».
Qual è il più grande privilegio di cui ha goduto?
«Avere ottima salute. Mi ha consentito il mio forse esagerato culto per l’autonomia».
Perché dice che l’ha aiutata a diventare scrittore il fatto che sua nonna diffidasse dei libri?
«Andavo a casa sua per scrivere nel suo giardino, e lei mi distraeva continuamente. Grazie a lei ho capito che la concentrazione contiene la distrazione. Sandro Veronesi scrive nella stanza dei suoi figli. Vitaliano Trevisan diceva che scriveva quando gli capitava».
Diventa sempre più poetico.
«La penso come Lalla Romano: la vera poesia è la prosa».