Alla Mostra del Cinema di Venezia 2025, il film di Benny Safdie che racconta l’ascesa e la caduta del campione UFC Mark Kerr. Non solo una storia di sport, ma un viaggio nell’abisso della dipendenza e nell’intensità di un amore feroce con Emily Blunt. Tra ring e spogliatoi, gloria e disfatte, Safdie firma un’opera potente che consacra Johnson come attore drammatico, in un film che colpisce come un pugno e commuove come una confessione
C’è qualcosa di inevitabile in un film che si chiama The Smashing Machine presentato in concorso alla 82.ma Mostra del cinema di Venezia (LA DIRETTA). Non solo un soprannome dato a un uomo, Mark Kerr, leggendario campione di arti marziali miste, ma una condanna esistenziale: essere macchina da combattimento, corpo destinato a frantumare e a frantumarsi. Benny Safdie, al suo debutto da solista dopo i successi di Good Time e Uncut Gems, prende questo destino e lo trasforma in un poema visivo di cadute e resurrezioni, di ring e di stanze d’albergo, di applausi e di silenzi.
Dwayne Johnson come non l’abbiamo mai visto
Alla Mostra del Cinema di Venezia Dwayne Johnson si è presentato con la trasformazione più radicale della sua carriera. Addio al divo dei blockbuster, all’eroe granitico di Fast & Furious e Black Adam: qui Johnson indossa protesi, cambia postura, si gonfia e si deforma per diventare davvero Mark Kerr. Non è più “The Rock”: è un uomo ferito, che si aggrappa agli antidolorifici come a una zattera, mentre la gloria UFC gli scivola tra le dita.
Il risultato è sorprendente: un’interpretazione vulnerabile, dolente, che Emily Blunt ha definito “inquietante e straordinaria”. E infatti, vederlo crollare dopo i match, con il volto tumefatto e lo sguardo smarrito, è un’esperienza quasi straniante. Come se la star mondiale fosse sparita e al suo posto fosse apparso un’anima fragile.
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Emily Blunt, compagna di lotta
Accanto a lui, Emily Blunt interpreta Dawn Staples, moglie e amante, confidente e nemesi. Il loro rapporto è un incontro di forze telluriche: amore e distruzione, passione e ferite. Safdie filma i loro litigi come veri match, con colpi bassi e pause strategiche, psicologie che si scontrano come corpi nell’ottagono. Ma sotto le urla, resta un legame viscerale, che resiste come cicatrice.
Blunt ha raccontato di aver parlato a lungo con la vera Dawn, per restituirne la verità: “Ho scoperto quanto amore e quanta devozione ci fossero in quella relazione, nonostante le difficoltà”. È anche per questo che la coppia sullo schermo brucia di autenticità: il loro è un amore che non si lascia spegnere nemmeno dalle dipendenze, nemmeno dai fallimenti.
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Un affresco sul dolore e sulla gloria
Safdie sceglie di non filmare solo i trionfi, ma soprattutto i momenti di vulnerabilità. Le arene gremite del Pride in Giappone lasciano spazio agli spogliatoi deserti, dove il dolore pulsa più forte degli applausi. C’è una scena in cui Kerr, appena sconfitto, sembra desiderare una botola che lo inghiotta via dal ring: la disfatta diventa il momento più umano, quello in cui la maschera del campione cade.
Qui il film tocca un punto universale: non è la vittoria a definirci, ma la sconfitta. Come scriveva Gay Talese su Floyd Patterson, citato dallo stesso Safdie, “la camminata più lunga è quella dal ring allo spogliatoio”.
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Un cinema fisico e poetico
La regia di Safdie è nervosa, immersiva, ma anche sorprendentemente lirica. Non c’è mai compiacimento nello spettacolo della violenza: ogni pugno, ogni ginocchiata, ogni caduta è montata come frammento di un’esistenza. Le lenti lunghe, il respiro affannoso della macchina da presa, la sensazione di essere parte della folla, rendono lo spettatore un testimone più che un voyeur.
Il ring diventa un teatro classico, con eroi tragici destinati al sacrificio. Non a caso il regista cita La vita è meravigliosa di Frank Capra come fonte di ispirazione: la vera vittoria non è sul tabellone, ma nello sguardo che si trasforma.
La metamorfosi di The Rock
Dwayne Johnson ha dichiarato: “Mi sono chiesto: sto vivendo il mio sogno o quello degli altri? Arrivi a un punto in cui devi decidere se adeguarti o se iniziare davvero a vivere quello che desideri”. The Smashing Machine è la risposta a quella domanda. È il film che gli permette di liberarsi dall’armatura del divo d’azione e di mostrarsi finalmente attore, uomo, creatura vulnerabile.
Alla conferenza stampa veneziana, l’attore ha reso omaggio a Kerr: “La sua vita ha cambiato la mia e quella di tutti noi che abbiamo lavorato al film. Non è solo una storia di vittorie o sconfitte, ma di cosa accade quando la vittoria diventa un nemico”
Se fosse un cocktail
The Smashing Machine avrebbe il sapore di un Old Fashioned incrinato, preparato con bourbon scuro, qualche goccia di bitter e un cubetto di ghiaccio che si scioglie lentamente, come una sconfitta che si trasforma in memoria. Non è un drink da aperitivo leggero: è un bicchiere che ti mette alla prova, ruvido e malinconico, ma che nel finale regala una dolcezza inattesa, il candore dell’arancia candita. Proprio come Mark Kerr, è una forza che vacilla, ma che nel suo crepuscolo trova poesia.
Visioni supplementari
C’è una scena che racchiude l’essenza di The Smashing Machine: Mark Kerr che, dopo mesi trascorsi in rehab, si allena furiosamente per tornare in forma, sulle note immortali di My Way. È il paradosso di un lottatore che vive per la vittoria, ma che assapora per la prima volta il gusto amaro della sconfitta.
Il film mette a nudo la dicotomia di un uomo gentile e quasi timido fuori dal ring, ma spietato e implacabile nell’ottagono. Vincere diventa come un orgasmo, una dipendenza bruciante quanto quella dagli oppiacei, usati per lenire non solo il dolore del corpo ma anche quello dell’anima.
Anche il rapporto con Dawn (Emily Blunt) sfugge a ogni semplificazione. Lei lo sostiene quando lui cede alla dipendenza, ma quando Mark trova la forza e lo sponsor per smettere, è Dawn a smarrirsi: esce tutte le sere con le amiche, prende analgesici dopo sbornie pesanti, fino a rompere una preziosa ciotola giapponese con intarsi d’oro che lui aveva comprato come simbolo di equilibrio. Più tardi, la ripara alla meglio con l’Attack: un gesto goffo ma potentissimo, che racconta come a volte la fragilità non si supera, si incolla. Come se, paradossalmente, Kerr riuscisse a gestire meglio il rapporto quando era “fatto”, perché la sua mania di controllo trovava una valvola.
A cucire tutto resta il desiderio insaziabile di vittoria, inciso persino su una maglietta che riassume la filosofia del campione e il doppio senso del titolo giapponese dove combatteva: “Il dolore è temporaneo, il Pride è per sempre”. Pride: orgoglio, certo. Ma anche la sigla della più celebre arena di arti marziali miste, il Pride Fighting Championships di Tokyo, tempio dove Kerr ha inciso la sua leggenda.
E a chiudere, come una carezza amara, la malinconia struggente di quella doccia finale che scioglie i nodi inconsci e le cicatrici del passato: un atto intimo e universale, che profuma di redenzione mancata e di nuova fragilità.
IL pugno che resta
The Smashing Machine non è un film sul vincere o perdere. È un film sull’essere vivi, sull’accettare che la forza più grande non è quella che ti fa alzare un trofeo, ma quella che ti permette di guardarti allo specchio dopo una sconfitta.
Con Dwayne Johnson e Emily Blunt straordinari, Safdie firma un’opera che mescola brutalità e tenerezza, epica sportiva e melodramma domestico. Non ci lascia l’adrenalina del trionfo, ma il silenzio di un corpo sudato che cerca un respiro. E forse è questo il vero pugno che resta: la poesia della fragilità umana.
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