L’orrore della guerra di Gaza ha superato da tempo il livello in cui poteva ancora essere accettabile o persino ragionevole discutere di dettagli, singoli episodi, circostanze attenuanti o aggravanti, questioni collaterali, di metodo, ideologiche o terminologiche. La stessa discussione sull’uso del termine «genocidio», scelta lessicale che ho sempre contestato come provocatoria, nonché rivelatrice di un macabro spirito di rivalsa, è una discussione ormai superata, tragicamente superata dai fatti.
Davanti all’orrore resta poco da dire e ancor meno da eccepire, e anche chi come me dopo il 7 ottobre ha avuto molto da eccepire su slogan, argomenti e portabandiera del fronte filo-palestinese, a questo punto deve alzare le mani. Dinanzi alla fame usata come strumento di guerra, alla tecnica del doppio bombardamento per colpire soccorritori e giornalisti, dinanzi a tutto quello che ogni giorno fanno e dichiarano apertamente di voler fare Benjamin Netanyahu e i suoi ministri, a Gaza non meno che in Cisgiordania, per non parlare delle deliranti pianificazioni etnico-palazzinare concepite alla Casa Bianca, bisogna avere il coraggio di guardare in faccia la realtà.
Siamo davanti a un massacro quotidiano e sistematico che va fermato, e chiunque faccia qualcosa per fermarlo, come la flotta partita ieri con l’obiettivo di sfidare l’assedio per portare aiuti alla popolazione di Gaza, merita solo applausi e sostegno.
Ricorre tuttavia nel dibattito un curioso argomento, che vale la pena di segnalare per la sua significativa trasversalità. Mi riferisco all’argomento secondo cui sarebbe troppo facile, per non dire ipocrita, prendersela con Netanyahu. Lo dicono i difensori di Netanyahu, per giustificarlo, sostenendo che questa sarebbe la guerra dell’intera Israele, che chiunque al suo posto farebbe lo stesso (ignorando le enormi manifestazioni che lo contestano e le tante voci di dissenso provenienti persino dall’esercito e dagli apparati di sicurezza). Ma lo dicono anche i peggiori estremisti del fronte filo-palestinese, che purtroppo non sono pochi, senza bisogno di arrivare fino ai deliri antisemiti di quel professore universitario secondo cui tutti gli ebrei, persino quelli apertamente schierati contro la guerra e contro Netanyahu, meriterebbero di essere messi all’indice, perché sotto sotto non possono che essere tutti d’accordo.
Come si vede, sia pure con intenzioni e giudizi di valore opposti, la sostanza dell’argomentazione è esattamente la stessa. Anzi, come spesso accade nello scontro tra opposti fanatismi, gli uni rafforzano e confermano le tesi degli altri. Gli uni per salvare Netanyahu (e sé stessi), gli altri per condannare tutti gli israeliani (o peggio tutti gli ebrei) in blocco, tutti convergono sulla stessa analisi. Per questo motivo bisogna invece insistere a dire che il problema, il primissimo problema del Medio Oriente, oggi è proprio Netanyahu. E loro sono il secondo.
Questo è un estratto di “La Linea” la newsletter de Linkiesta curata da Francesco Cundari per orientarsi nel gran guazzabuglio della politica e della vita, tutte le mattine – dal lunedì al venerdì – alle sette. Più o meno. Qui per iscriversi.