Pierfrancesco Favino emoziona con Il maestro, presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia 2025 e diretto da Andrea Di Stefano. Un film intenso e struggente che racconta l’elogio della sconfitta: un ex tennista fallito e un ragazzo oppresso dal padre scoprono che il talento da solo non basta. Una parabola di cadute e rinascite, tra racchette sbattute, primi piani commoventi e una colonna sonora che unisce Battiato, Raf, Bertè e Renato Zero

Il tennis è uno sport crudele. Vai in campo da solo, e contro hai soltanto te stesso. Nessun compagno che possa coprire il tuo errore, nessuna scusa, solo silenzi interrotti dal rimbombo di una palla. Il maestro di Andrea Di Stefano, presentato fuori concorso a Venezia 2025 (DIRETTA), affonda proprio in questa solitudine. Pierfrancesco Favino diventa Raul Gatti, ex promessa delle racchette, un uomo stropicciato che ha conosciuto la gloria effimera degli ottavi al Foro Italico e poi il baratro delle sconfitte. Un fallito che allena un ragazzino, Felice, tredici anni e tutte le aspettative del padre sulle spalle.

«Mio padre non ti paga per dormire», dice il genitore (Giovanni Ludeno), ingegnere severo e ossessionato dal successo. E Felice sembra vivere sotto il peso di una lista infinita di sconfitte: sette tornei nazionali, sette cadute, nessun riscatto. «Bisogna giocare d’attacco», suggerisce Raul, ma il campo rosso continua a macchiare i calzini di terra rossa.

Il gesto della sconfitta

C’è un’immagine che resta incisa: la mano che si posa sulla gola e il sussurro «la vita mi sorride», subito dopo l’ennesima partita persa. È la contraddizione del vivere, l’ossimoro di un sorriso che non basta a cancellare l’amarezza. Di Stefano costruisce un film fatto di questi gesti minimi, di una dolcezza nascosta nelle crepe. Non la vittoria, ma la capacità di guardare negli occhi la sconfitta e riconoscerla come parte inevitabile dell’esistenza.

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Venezia 82, fuori concorso “Il Maestro” con Pierfrancesco Favino

L’elogio dei maestri imperfetti

Il regista lo dichiara nelle note: Il maestro è un omaggio ai mentori imperfetti, a coloro che non insegnano la tecnica, ma il coraggio di perdersi. E Favino, in conferenza stampa, lo ribadisce: «Raramente ho interpretato un personaggio così apertamente perdente. Forse c’è più di me in Raul di quanto immaginassi». È qui che l’attore romano trova una verità nuova: spogliandosi del carisma granitico dei suoi ruoli precedenti, sceglie la fragilità, il fallimento come specchio.

Accanto a lui, Tiziano Menichelli sorprende nel ruolo di Felice, sospeso tra rabbia e obbedienza. E tra i comprimari si accendono presenze forti: Dora Romano, Valentina Bellè, e un’apparizione speciale di Edwige Fenech, icona che porta con sé l’eco di un cinema che fu.

Approfondimento
Il Maestro, una clip dal film con Pierfrancesco Favino

Le canzoni come memoria

Ma c’è un altro personaggio, invisibile ma potentissimo: la colonna sonora. Cuccurucucù di Franco Battiato vibra come una profezia, Ti pretendo di Raf accende il ritmo delle estati anni Ottanta, Meglio libera di Loredana Bertè diventa un inno alla ribellione adolescenziale. E ancora: Gringo di Sabrina Salerno, Sereno è di Drupi, L’estate di Orietta Berti, Autostop di Patty Pravo, Voyeur di Renato Zero. Ogni brano è una scheggia di tempo, un frammento che racconta il Paese, i suoi sogni e le sue cadute.

Come se la musica completasse il viaggio dei protagonisti: due perdenti che trovano il loro riscatto non nelle coppe, ma nelle note che restano, nei ricordi che non si cancellano

Il talento non basta

«Il talento da solo non basta per avere successo», sembra dire il film. È una lezione dura, quasi crudele: Raul è un fallito che allena una “pippa”. Eppure, nel legame tra i due, qualcosa fiorisce. Non è un trionfo, non è l’happy ending da manuale: è un’estate irripetibile, che resterà negli occhi come quelle giornate che ti segnano per sempre. L’immagine indelebile non è la coppa alzata, ma due primi piani finali che inchiodano lo spettatore: anche i perdenti possono essere portati in primo piano.

Un film che parla al presente

Eppure Il maestro non resta confinato alla nostalgia. Favino, nelle sue parole, richiama l’urgenza del presente: la libertà di espressione, la necessità che il cinema torni a risvegliare coscienze, non a compiacere narcisismi. È questo il senso ultimo di un’opera che sceglie di raccontare la vita senza falsi eroi, restituendo dignità a chi non vince.

Il maestro come cocktail

Se Il maestro fosse un cocktail, sarebbe un Americano anni Ottanta: semplice, disilluso, con un retrogusto amaro che però disseta. Non il glamour del Negroni, non l’esotismo dei drink d’autore, ma un bicchiere che profuma di bar di provincia, di luci al neon e di estati finite troppo presto.

La vittoria segreta dei perdenti

 

Andrea Di Stefano firma un film che rifiuta la retorica della vittoria e preferisce la poesia della sconfitta. Favino si offre vulnerabile, Menichelli cresce davanti ai nostri occhi, la musica anni Ottanta ci riporta a un’Italia ingenua e feroce. E noi, spettatori, usciamo con un pensiero: forse la grandezza non è nel diventare campioni, ma nel saper restare umani anche dopo un 6-1 al secondo set.

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