L’Iran, Israele, Gaza. Ma anzitutto la sua prigionia nel carcere di Evin a Teheran, dove tra il dicembre e il gennaio scorsi è stata rinchiusa 21 giorni con l’accusa di essere una spia. La giornalista Cecilia Sala si racconta in occasione del lancio del suo nuovo libro (I figli dell’odio, per Mondadori).
“Sto registrando un podcast per Chora seduta sul letto. Un pasdaran con cui avevo appuntamento mi ha appena detto che non può incontrarmi, perché in città c’è troppo smog. Intuisco che qualcosa non torna. Bussano alla porta. Rispondo che non ho bisogno di nulla. Bussano ancora. Apro. Capisco subito quello che stanno per farmi. Mi prendono i soldi, il passaporto, il telefonino. Mi incappucciano. Mi portano via”, dice ad Aldo Cazzullo in un’intervista al Corriere della Sera, rievocando il suo arresto in un albergo di Teheran, la mattina del 19 dicembre.
(ansa)
I giorni in carcere a Teheran
La giornalista, collaboratrice del Foglio e di Chora, rievoca l’ingresso a Evin: “Ti spogliano. Devi fare il solito squat nuda. Sul pavimento sotto il metal detector sono dipinte le bandiere americana e israeliana, che devi calpestare. Gli uomini vengono picchiati. Tutti, sistematicamente. Le celle per gli interrogatori sono chiuse e insonorizzate, ma a volte vengono aperte, e senti le grida dei torturati. Anche le donne a volte vengono bastonate. A me non è accaduto. Ma sul muro della mia cella c’era una grande macchia di sangue. Versata dalla donna che era lì dentro prima. Non so se fosse stata picchiata, o si sia ferita da sola. La sentivo prendere la rincorsa, per quanto si possa fare in un loculo di due metri, e gettarsi con tutte le sue forze con la testa contro la porta blindata. Sperando di fracassarsi il cranio e morire”.
CECILIA SALA GIORNALISTA
Nella cella non c’era nulla, “non un letto, non un materasso, non un cuscino. Solo un secchio di acciaio per i bisogni, in alternativa al cesso alla turca dove talora mi portava la guardia”. La vita in prigionia è durissima, l’unico conforto le arriva da un gatto in cortile: “Il tempo è iperdilatato. Ti sembra sia passata un’ora, ma sono passati solo dieci minuti. Giorno e notte non esistono. La luce è sempre accesa, quindi non riesci a dormire. È tutto studiato per spezzarti e ottenere da te quello che vogliono. Una tortura bianca”.
Gli interrogatori
L’obiettivo, racconta Sala, era spingerla a dichiararsi falsamente una spia, perché così negli scambi una spia vale più di una giornalista: “Ma io conoscevo la storia dell’iraniano di cittadinanza svedese che, indotto dopo due anni a confessare il falso, da otto anni è rinchiuso a Evin nel braccio della morte, ridotto a un fantasma. Se ti spezzano, e tu confessi, allora è finita”.
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Gli interrogatori sono condotti con abilità. C’era anche un uomo che parlava italiano molto bene. E un giorno la portano a vedere una gru: “È quello che facciamo alle spie”, le dicono. Poi la liberazione, per cui ringrazia i suoi genitori, i servitori dello Stato e la premier Giorgia Meloni. Un giorno, dice Sala, tornerà in Iran: “Sono sicura che prima di andare in pensione ci tornerò. E nel frattempo la Repubblica islamica sarà caduta”.