Archetipi e totem; scarabocchi su lino o sapone nero; installazioni di piante rigogliose; grosse teste; libri, tappeti persiani, piastrelle, video famigliari, specchi spruzzati di spray. Una commistione di linguaggi della cultura afro-americana, riletti in maniera inedita, abita la mostra A Poem for Deep Thinkers, personale di Rashid Johnson (Chicago, 1977) al Guggenheim di New York, a cura di Naomi Beckwith, Jennifer and David Stockman, Andrea Karnes e Faith Hunter.
Rashid Johnson a New York: coesistere tra culture diverse cercando la propria identità
I media diversi combinati dall’artista creano una dialettica tra la sua origine africana e la naturalizzazione americana, creando una connessione tra la sua identità culturale mista e gli archetipi mentali e emozionali di ciascun individuo. Ai piani alti trionfano le grandi e complesse installazioni, come Antoine’s Organ, 2016, in cui elementi vegetali che evocano vere e proprie foreste incontrano oggetti artificiali con cui instaurano un’inattesa armonia. Installazioni video costellano il percorso, cercando di rispondere, proprio come le opere di altra natura, come le pesanti teste in terracotta, omaggio alla tradizione e i graffiti sugli specchi dall’estetica punk, a domande esistenziali, tra cui la classica cinquina del “chi, cosa, dove, quando, perché, come”. Con ironia, anche coinvolgendo direttamente i suoi famigliari, l’artista rivisita le culture tribali per alleggerire, e forse minimizzare, la necessità di rispondere all’annoso quesito del perché dell’esistenza.
L’articolo continua più sotto
Rashid Johnson Poem for Deep Thinkers-installation viewLa ricerca di Rashid Johnson al Guggenheim di New York
Dal 2000 Rashid Johnson inizia la ricerca di un sé altro, lontano dalle piantagioni e dalla schiavitù, per individuare la propria identità in relazione al suo rapporto con il mondo. Cresciuto secondo principi occidentali ma figlio di una professoressa di storia africana attaccata alle sue origini. Ad esempio, ricorda Johnson sorridendo nell’intervista a Claudia Rankine, la madre lo obbligava a spalmarsi quotidianamente con il burro di Karitè, dal momento che per lei era un imprescindibile elemento di appartenenza culturale. Così, nell’installazione video Black Orpheus, 2010, l’artista si chiede: “Come si può applicare l’africanità a se stessi”, proprio mentre si risparge di questo burro, poi adoperato come media in diverse opere.
Tra installazioni, graffiti e video, le opere di Rashid Johnson al museo Guggenheim
Frasi concise, le stesse gridate dalle black struggles o dalle pantere nere contro la discriminazione razziale, come: Stay black and Die, 2005; oppure frasi che invitano al rinnovamento: I’m hope I‘m funny, 2008, sono tracciate con vernice spray su specchi che conferiscono un tono provocatorio e ironico a tutto il percorso, coinvolgendo direttamente lo spettatore che si “riflette” nelle parole scritte. Il mirroring coinvolge gli spettatori, rendendoli testimoni anche nel maestoso The Broken Five, MET Collection, 2020, un mosaico realizzato con materiali incompatibili che Johnson ha saldato tra loro; le cinque figure con i corpi costituiti simbolicamente da Shaka (scudi ovali di matrice Shaka Zulu) e i volti disincarnati (neri e marroni, come dice l’artista), pur ricordando quelli dei ragazzi incriminati e assolti per stupro a Manhattan nell’aprile 1989, vengono sollevati dalla loro individualità per evocare una tragicità di cui, in una prospettiva condivisa, siamo tutti testimoni. Così come le grandi tele monocrome, tra cui: Anxious red painting, 2020; Bruise painting “Sodde”, 2021, che reiterano simboli o ricordano manufatti, facendo emergere turbamenti spesso celati ma che appartengono a tutti noi ().
Cristina Zappa
New York // fino al 18 gennaio 2026
Rashid Johnson: A Poem for Deep Thinkers
Libri consigliati:
(Grazie all’affiliazione Amazon riconosce una piccola percentuale ad Artribune sui vostri acquisti)
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati