In Italia si stima che l’ADHD, il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività, colpisca circa il 3-4% della popolazione adulta. Una percentuale sottostimata, secondo molti esperti, perché le diagnosi in età adulta sono ancora rare e spesso arrivate tardi, dopo anni di fatica, inadeguatezza, tentativi falliti di «stare al passo». Se nell’infanzia l’ADHD può manifestarsi in comportamenti impulsivi, difficoltà scolastiche o eccessiva vivacità, negli adulti assume forme più sottili ma altrettanto invalidanti: procrastinazione cronica, scarsa gestione del tempo, difficoltà relazionali e lavorative, ansia, sensi di colpa.

Il problema è che, spesso, nessuno sospetta l’ADHD. Né l’interessato, né chi gli sta intorno. «Per tutta la vita mi sono sentito sbagliato», ci racconta Andrea. «Bravo, sì, ma inaffidabile. Sempre l’ultimo a finire, sempre a rincorrere».

Manager di 42 anni, lavora in un’importante azienda multinazionale nell’area e-commerce e data analysis. Una figura brillante, creativa, sensibile, amata dai colleghi per la sua empatia e capacità di visione. Ma per anni si è sentito «inadeguato». Fino a quando, nel pieno della pandemia, qualcosa è scattato.

«Avevo 38, 39 anni. Il lockdown mi ha tolto il “controllo esterno” dell’ufficio e io mi sono completamente perso. Non riuscivo a rispettare più le scadenze, a organizzare il lavoro, mi sentivo smarrito. Disperso. Ma fu anche un momento di verità: iniziai a leggere post sui social, storie di altri adulti con ADHD… e in quelle parole mi sono riconosciuto. Era come se qualcuno mi stesse raccontando».

Da lì, il percorso verso la diagnosi di ADHD combinato (quello che unisce inattenzione e iperattività/impulsività), la psicoterapia cognitivo-comportamentale e un coaching mirato che lo ha aiutato a trasformare il suo funzionamento mentale da ostacolo a risorsa, affidandosi a Maria Gabriella La Porta, ADHD Coach di formazione avanzata. Lo abbiamo sentito al telefono per farci raccontare la sua storia. E anche per provare a capire cosa significhi, davvero, essere adulti con ADHD in un mondo pensato per i «neurotipici».

Andrea, partiamo dall’inizio. Che tipo di bambino era?
«Vivace, curioso, sempre con la testa piena di cose. Ma facevo una fatica incredibile a stare fermo e concentrato. Alle elementari parlavo sempre, mi distraevo facilmente. Mi dicevano: “Sei bravo, ma non ti applichi”. Era frustrante. Alle medie iniziò la vera ansia: finivo sempre per ultimo i compiti, avevo il terrore di fallire. Giocavo con qualsiasi cosa pur di distrarmi. Nessuno si chiedeva il perché, si pensava fosse solo una questione di “carattere”».

Quando ha iniziato a sospettare che ci fosse qualcosa di più?
«Durante la pandemia, quindi molti anni dopo. Il lavoro da remoto mi ha tolto tutti i punti di riferimento. Senza la routine dell’ufficio, non riuscivo più a gestirmi. Procrastinavo tutto, perdevo le consegne, mi sentivo sempre in colpa. Non era solo disorganizzazione: era un senso costante di inadeguatezza. Poi, leggendo post sui social, ho iniziato a rispecchiarmi in chi raccontava l’ADHD. Ho pensato: “E se fosse anche il mio caso?”».

Come è arrivato alla diagnosi?
«Ho deciso di affrontarlo. Ho cercato un professionista, ho fatto i test e ho ricevuto la diagnosi: ADHD combinato. È stato un sollievo e uno choc insieme. Finalmente avevo una spiegazione, ma anche la consapevolezza che non era una “fase”: era una mia caratteristica. Da lì ho iniziato un percorso, sia con la psicoterapia cognitivo-comportamentale che con il coaching. E lì è iniziata la vera trasformazione».

Qual era il problema principale nella sua quotidianità lavorativa?
«La gestione del tempo. Non riuscivo a stabilire le priorità, dicevo sempre “sì” a tutto per paura di deludere e poi finivo per bruciarmi. Arrivavo al burnout. La procrastinazione era continua, anche su cose importanti. E poi c’era l’ansia da prestazione, il perfezionismo, il terrore di non essere abbastanza».

E che cosa l’ha aiutata?
«Il coaching è stato fondamentale, il lavoro fatto con Gabriella è stato straordinario e fondamentale. Mi ha dato strumenti concreti. Ho imparato a riconoscere i miei “ladri di attenzione”: dettagli inutili, richieste non urgenti, tentazioni digitali. Ho imparato a dire di no, a proteggere il mio tempo. E ho scoperto che la mia iperattività mentale — che prima mi sembrava un difetto — è in realtà una risorsa. Ora so usare l’iperfocus a mio vantaggio: quando riesco a canalizzarlo, in mezz’ora faccio più che in 5 ore prima».