di
Daniele Sparisci
Il grande pilota austriaco raccontato dal figlio Lukas: «Con Hamilton si sentiva molto vicino, oggi darebbe centinaia di titoli»
Cinquant’anni fa a Monza Niki Lauda vinceva il suo primo titolo Mondiale in Formula 1, un trionfo che ha cambiato per sempre la sua storia e quella della Ferrari. Il primo figlio, Lukas, fa un’eccezione alla riservatezza di famiglia («Mai fatta un’intervista, non mi piacciono e non sono bravo ma questa è una ricorrenza speciale») per ricordare la lezione indimenticata del grande campione austriaco, scomparso il 20 maggio del 2019 a settant’anni. Sempre attuale, sempre vivo nel cuore degli sportivi e dei tifosi, anche quelli più giovani.
Lei ha 46 anni: non era neanche nato nel 1975, quando ha iniziato a conoscere le imprese di suo padre?
«Ci ho messo diversi anni. Perché lui non ne parlava mai della Formula 1, per noi era soltanto un papà che viaggiava molto, ma quando stava a casa si dedicava completamente alla famiglia. La prima volta che mi sono reso conto che era un personaggio famoso è stato a Ibiza. Ho vissuto e sono andato a scuola lì fino a otto anni, a Sant Carles, e anche dopo ci tornavamo sempre in estate con mio fratello Mathias. Un giorno mi porta al villaggio, eravamo seduti in un bar e vedo che inizia ad arrivare gente attorno a lui».
Che cosa volevano?
«Autografi. O semplicemente stringergli la mano e fargli i complimenti, domandargli qualcosa. Non capivo, così gli ho chiesto: “Perché vengono tutti da te?”».
E lui?
«Ricordo come fosse ieri la risposta, sarà stato il 1982 o 1983: “Perché sono un pilota di Formula 1, sono stato due volte campione del mondo”. Così ho scoperto chi era veramente».
Quale è l’eredità che ha lasciato alla Formula 1 di oggi?
«Ascoltava gli altri piloti, quello che ritenevano fosse giusto. Per lui erano fondamentali la sicurezza e il rispetto. Diceva che gli uomini al volante sono tanto importanti quanto le macchine e le grandi squadre, allora non era scontato mentre oggi per fortuna è così. Sapeva isolarsi dal rumore di fondo e concentrarsi sulle corse, non gli interessava quello succedeva che fuori dalla pista come avviene adesso. Anche dopo avere smesso era sempre disponibile a dare consigli a chi ne aveva bisogno».
Ne ha dati tanti a Lewis Hamilton.
«Già, erano molto vicini e per certi versi simili. Il loro rapporto era basato sul reciproco rispetto, piloti di generazioni diverse ma con la stessa mentalità vincente. Ecco perché si capivano tanto».
Niki Lauda ai tempi dei social, come si comporterebbe?
«Sarebbe stato interessante vedere come li avrebbe gestiti. Alla sua epoca era più semplice. Quando gli chiedevano qual è un buon momento per fare un’intervista rispondeva: ora, fra tre minuti. È sempre stato così, oggi darebbe centinaia di titoli. Ma dovrebbe stare molto più attento a cosa dire, oggi non c’è privacy, tutti registrano tutto con lo smartphone».
Del passato diceva: «Non sono il tipo che vive di ricordi, preferisco vivere il presente e concentrarmi sul futuro». Era veramente così?
«Sì, al 100%. Ogni giorno era un nuovo inizio, pensava sempre in avanti. Era curioso, i nuovi progetti erano come un elisir per lui, gli servivano per restare giovane. Viveva nel presente e si preparava al futuro. Era fatto così».
Quale è stata la lezione più importante che le ha trasmesso?
«Niki per me non era soltanto un padre. È stato come un fratello maggiore e poi come un migliore amico. Non ha mai trattato me e Mathias da bambini, ci parlava come fossimo adulti, di tutto, sempre con il suo stile diretto. Ci ha trasmesso la sua filosofia di vita, è stato bello e più passa il tempo e più lo capisco. Mi ha insegnato a essere umile, a non mettermi in mostra, a non parlare mai di soldi, a essere educato e non a prendermi troppo sul serio. Lui non si considerava mai troppo importante».
Un ricordo particolare?
«Avrò avuto forse diciotto anni, ci aveva portato in un viaggio di lavoro a Seattle. Alla sera voleva sempre andare a cena fuori: sceglie un ristorante italiano insieme a un paio di amici. Ci sediamo. A un certo punto entra in sala il manager e chiede a papà di togliersi il cappellino rosso che indossava sempre dopo l’incidente al Nürburgring. “Sa, le regole del nostro locale non consentono di tenere cappellini da baseball a tavola. Se non lo leva saremo costretti a prendere provvedimenti…”. Noi assistevamo alla scena chiedendoci che cosa sarebbe successo».
E poi che è successo?
«Si è tolto il cappello senza esitare e ci ha detto di metterci seduti, che avremmo iniziato a cenare. A un certo punto, dopo la prima portata, si è presentato il proprietario del ristorante, un italiano. Aveva capito chi c’era al tavolo, si è scusato e ha fatto una scenata al manager. Niki sorrise, lo guardò negli occhi e disse: “Non si deve scusare, le regole sono regole”. E continuò a cenare senza il capellino mentre noi ridevamo come pazzi».
Altre cose che si porta dentro?
«Mi ha insegnato a essere il giudice di me stesso, a non sprecare tempo e a fidarmi di poche persone, degli amici veri. Per papà una cosa era bianca o nera, mai grigia, non sempre era facile. Agli appuntamenti arrivava sempre puntuale, in genere anche dieci minuti prima: era importantissimo per lui. E poi la parola “lamentarsi” non esisteva nel suo vocabolario. Così come cercare scuse. Più invecchio e più lo ammiro e apprezzo il modo in cui ha scelto di vivere. Da giovane non era sempre facile, adesso provo a trasmettere questi insegnamenti a mio figlio per essere un buon padre».
Dopo aver vinto tre Mondiali da pilota, ha fondato una compagnia aerea, e poi ha vinto ancora in pista da dirigente della Mercedes. Qual era il suo segreto?
«Ha sempre ottenuto il massimo dal suo tempo, non sprecava un minuto. Odiava stare fermo, era sempre in cerca di nuove avventure. Poteva essere la compagnia aerea, un progetto sulle corse o qualcosa di finanziario: lui aveva sempre lo stesso approccio. Dedizione totale, pragmatismo, mente aperta. Considerava gli anni in Mercedes come l’esperienza più elettrizzante della sua vita, mi diceva che quei titoli vinti per lui erano più importanti di quelli che aveva conquistato al volante».
Perché?
«Si divertiva un sacco, anche se l’inizio era stato complicato perché papà è sempre stato un leader. Ma più tempo passava con Toto Wolff (il capo della Mercedes F1, anche lui austriaco, ndr) e più capiva di avere incontrato un partner formidabile, uno che aveva visione e che rendeva il lavoro più semplice e leggero: vincevano titoli e ridevano anche. Alla fine, erano diventati grandi amici».
Che cosa avrebbe cambiato della sua vita?
«Ricordo una conversazione, eravamo giovani e gli chiesi: “Se potessi tornare indietro nel tempo, sapendo già come sarebbero andati gli eventi, ti saresti comportato in maniera diversa al Gran Premio del Fuji nel 1976? (Lauda decise di ritirarsi a causa della pioggia fortissima e James Hunt vinse il Mondiale per un punto, una vicenda che ha ispirato il film Rush, ndr)”. Fissandomi dritto negli occhi mi rispose: “Farei esattamente ciò che ho fatto, non ho rimpianti”».
Ma qualche rimpianto lo avrà pur avuto?
«Sì, si era pentito di aver lasciato la Ferrari alla fine del 1977. Qualche volta me lo ripeteva: se fossi rimasto avrei potuto vincere facilmente altri due Mondiali. Questo era il suo più grande rimpianto».
Lei ha mai sognato di diventare pilota?
«No. Non avevo talento, sono grande e grosso, 1 metro e 86 centimetri, e a casa ci era stato proibito di andare sui go-kart. Da papà, ma anche da mamma che era spaventata a morte. L’anno scorso però un sogno l’ho realizzato: partecipare alla Dakar in camion. Ma l’ho fatto per me».
3 settembre 2025
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